lunedì 22 ottobre 2012

Amour

Georges e Anne sono due anziani professori di musica oramai in pensione. Anche la loro figlia, Eva, è una musicista: si è sposata, e vive all'estero con la propria famiglia. La vita dei due ottantenni è serena, tenuta assieme da un legame forte e vitale. Un mattino, Georges si accorge con spavento che Anne è vittima di una prolungata assenza, non riuscendo ella più a sentirlo, neppure a percepirne la presenza. Spaventato, egli la costringe a fare degli accertamenti: l'intervento al quale la donna viene rapidamente sottoposta non dà, purtroppo, l'esito sperato. Lentamente, Anne perde l'uso dei movimenti, della parola, della capacità di comprendere. E' l'inizio di un lungo, penoso periodo nel quale Georges - liquidata un'infermiera che gli pare troppo brutale - finisce per occuparsi da solo della sua sventurata compagna. Alla fine, una scelta difficile quanto dolorosa porrà fine al tormento di ambedue.

Amour, recita il titolo. E' così: questo bellissimo film di Haneke sembra inverare, per vie ben diverse, il Bataille che rivendicava "l'appropriazione dell'amore fino alla morte". Raramente, ci sembra, con tanta intensità è stato coniugato l'amore, rivendicato proprio allorquando più difficile si fa l'affermazione del sentimento: fino al momento in cui la pietas s'incarica d'interrompere quel che è divenuto un "in limine mortis" interminabile, inutilmente straziante. Qui, però, c'interessa sottolineare quanto "Amour" - pur in apparenza diverso dalle precedenti opere di Haneke - s'inserisca invece in modo armonioso nella filmografia del regista di Monaco.

Pochi ricordano, probabilmente, che George e Anna si chiamavano pure i protagonisti del primo lungometraggio per il cinema del nostro, "Der siebente Kontinent" (1989): avevano, i due, finanche una figlia chiamata Eva. Ebbene, ivi marito e moglie si chiudevano in casa assieme alla figliola, demolivano l'alloggio, distruggevano il denaro e infine si suicidavano. Le lunghe inquadrature sugli sguardi apatici dei protagonisti, su oggetti d'arredamento, sul televisore acceso anche dopo che la famiglia s'è spenta, sono momenti d'una radicalità quasi insostenibile. Non ci sembra azzardato immaginare "Amour" come una variante sul tema: quasi Haneke avesse voluto immaginare per i suoi personaggi quale avrebbe potuto essere la vita, se non avessero compiuto scelte tanto radicali.

Una cosa, in ogni caso, accomuna le due pellicole e, in generale, l'opera tutta di Haneke: la morte e la sua presenza. "Medea non muoia in scena" ammonivano gli antichi, e sapevano quel che dicevano: la dipartita è momento sacrale e tragico, è "la fine" e la sua rappresentazione l'insostenibile confronto con essa. In contrasto con quanto si è vieppiù venuto con il tempo affermandosi, vale a dire l'agonia come spettacolo e metafora d'una civiltà degenerata, Haneke restituisce al momento estremo la propria dignità, a partire dalla pacata ma ferma constatazione che esso è laddove la vita - pur nell'esistenza dei segni biologici - non si dà più. Dalle stragi "fuori campo" di "Funny Games" (1997) alla comminata interruzione d'una sofferenza priva di significazione, corre il filo rosso d'uno sguardo etico prima ancora che registico, nel solco d'una tradizione che ha un solo, illustre precedente: Robert Bresson. Non credo si possa far ad Haneke complimento migliore dell'affermare ch'egli è pienamente all'altezza del maestro, né a Riva e a Trintignant del definire questa loro la migliore interpretazione nella carriera di entrambi.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

AMOUR. REGIA: MICHAEL HANEKE. INTERPRETI: JEAN-LOUIS TRINTIGNANT, EMMANUELLE RIVA, ISABELLE HUPPERT. DISTRIBUZIONE: TEODORA FILM. DURATA: 127 MINUTI.


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