giovedì 29 novembre 2012

Ruby Sparks

Calvin, genio precoce, da giovanissimo aveva esordito con un un romanzo in breve tempo divenuto - oltre che un bestseller - un classico della letteratura americana. Dopo, due lustri di silenzio: blocco creativo che, invano, lui tenta di superare con l'aiuto d'uno psicanalista. Il nostro sta da solo, ha rotto da un po' con una ragazza, lascia che la vita sia scandita dalla fisiologia di Scotty, un cagnolino così chiamato in omaggio a Francis Scott Fitzgerald. La maggior parte del proprio tempo la trascorre alla macchina da scrivere, inchiodato davanti ad un foglio bianco. Ma l'ispirazione, repentina come se ne era andata, gli torna all'improvviso quando sogna di una ragazza: la mette su carta e voilà, quasi per magia, i polpastrelli procedono per conto loro, il nuovo libro prende velocemente corpo. Nel senso letterale della parola: un bel giorno, egli si trova per casa la protagonista della narrazione in carne ed ossa. Ruby Sparks è lì, dolce, remissiva e, soprattutto, a sua disposizione: basta ch'egli scriva quanto deve fare, e lei parla francese senza accorgersene o cucina in maniera divina. A questo punto, Calvin decide di gestire la storia senza ricorrere all'artifizio letterario, ma presto si presentano i problemi che affliggono la maggior parte delle coppie...

Erano sei anni che Jonathan Dayton e Valerie Faris non dirigevano un film: dall'epoca, cioè, di "Little Miss Sunshine", che li aveva imposti all'attenzione generale col suo umorismo sinistro ed il ritratto di una famiglia sui generis. Adesso mutano registro e, affidatisi ad un'altra coppia di protagonisti, Paul Dano e Zoe Kazan (quest'ultima, qui, anche impeccabile sceneggiatrice), licenziano una commedia d'aspetto tradizionale, tuttavia più sottile e complessa di quello che può a prima vista sembrare. Se la relazione uomo-donna vi è il tema principale, difatti, è altrettanto vero che esso viene sviluppato in un modo alquanto atipico: si parte da un racconto fantasy, ricco di trovate, e, senza preavviso, il tono diventa serio - sino a lasciar presagire una possibile tragedia - mano a mano che si procede verso il termine. E pazienza se l'amaro prefinale viene corretto in extremis dallo scioglimento che si rifà a uno dei più resistenti miti Usa, quello della seconda possibilità (laddove, paradossalmente, era giusto Scott Fitzgerald ad ammonire che "non vi sono secondi tempi nelle esistenze americane").

Qual'è il nocciolo, insomma? Risiede, a nostro avviso, nella natura polimorfa del maschilismo. Calvin è certo un bravo ragazzo, ma, al pari d'altri come lui, si sente vittima delle donne che di volta in volta gli stanno a fianco, senza domandarsi se sia esattamente così. Sta di fatto che, quando per miracolo la compagna dei suoi sogni per miracolo gli si presenta, finisce per abusare del potere che la sorte gli
ha riservato: sino a dover concludere che una relazione amorosa non ha da essere asimmetrica, che la volontà di una delle due parti non può esser conculcata dall'altra, che voler bene comporta dei rischi.  Quella che corre sottotraccia, insomma, è la storia d'una educazione sentimentale: alla conclusione, il protagonista digita delle parole che ridanno la libertà a Ruby. La sua Ruby: forse, chissà, potrà tornare un giorno ad esserlo. A patto però che egli sia capace, ora, di evitar di raccontare in anticipo il finale.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

RUBY SPARKS. REGIA: JONATHAN DAYTON, VALERIE FARIS. INTERPRETI: PAUL DANO, ZOE KAZAN, CHRIS MESSINA, ANNETTE BENING, ANTONIO BANDERAS, ELLIOTT GOULD. DISTRIBUZIONE: 2OTHCENTURY FOX. DURATA: 104 MINUTI.


mercoledì 21 novembre 2012

Il sospetto

Lucas, ex-maestro elementare reduce da un divorzio di cui porta ancora i segni, vuole rifarsi una vita inserendovi pure il figlio adolescente, Marcus, che lo preferisce alla madre. Stimato dalla comunità nella quale vive e da chi lo conosce bene, il nostro ha trovato lavoro in un asilo, dove i bambini lo adorano. Su tutti, gli porta un particolare affetto Klara (la figlioletta del suo migliore amico), che un giorno lo bacia sulla bocca in modo innocente e gli regala un piccolo cuore. Lucas, seppure con estremo garbo, invita la bimba a girare il dono a qualche compagno di giochi e la ammonisce a non dare baci ad altri, se non ai genitori. Piccata e, in qualche modo, offesa, ella sostiene con la direttrice dell'asilo d'avere subito molestie sessuali da Lucas. Partita in sordina, l'accusa diviene rapidamente qualcosa di molto serio: intorno all'uomo, del tutto innocente, si scatena una sorta d'isteria collettiva che non si placa neanche quando il giudice - dopo un inverosimile arresto - stabilisce il non luogo a procedere per insussistenza degli indizi. Umiliato da tutti, finanche picchiato, Lucas verrà, dopo un certo periodo, riammesso nella comunità: ma non per tutti egli è senza colpa...

Cineasta ampiamente sopravvalutato, Thomas Vinterberg fu cofondatore del movimento "Dogma 95" assieme a Lars von Trier e conobbe una certa notorietà con "Festen" (1998), opera ferocemente antiborghese ma di grana grossa (malgrado i presuntuosi riferimenti a Bunuel ed al Renoir de "La regola del gioco"), sorprendentemente premiata a Cannes. Dopo una manciata di altre pellicole delle quali ben poco ci si ricorda, con questo "Il sospetto" Vinterberg si pone con decisione nel solco di una drammaturgia più tradizionale, abbandonando i solipsismi stilistici di un tempo: e manco a farlo apposta firma il suo film migliore, grazie pure alla magnifica interpretazione di Mads Mikkelsen (giustamente gratificata da un riconoscimento a Cannes).

Gli argomenti trattati, intendiamoci, non sono nuovi: sulla cecità crudele e schizofrenica figliata dal pregiudizio ci sono stati infiniti capolavori, da "Furia" (1936) di Lang a "Il corvo" (1943) di Clouzot a "Scene di caccia in Bassa Baviera" (1969) di Fleischmann; quanto al potere devastatore di talune fantasie infantili, un classico come "La calunnia" (1936) di Wyler aveva già detto tutto, oltre 75 anni fa. D'interessante - e nuovo - nel film di Vinterberg, c'è la descrizione di un gruppo di persone dove la ferinità va dai riti d'iniziazione - quello del figlio di Lucas alla caccia, che vedrà partecipe il padre pur consapevole, ormai, di cosa si nasconda dietro codeste apparenze - ai pestaggi nei supermercati, fino alle fucilate sparate ad altezza d'uomo. Che tutto questo avvenga nella civile e progredita Danimarca rende più inquietante la cosa ed offre materia di riflessione a quanti vorrebbero andare per le spicce di fronte ai mostri presunti. Sfiorando con coraggio il tema della pedofilia fuori dall'ottica scandalizzata e digrignante oggi diffusa, Vinterberg racconta sottotraccia la fine dell'innocenza d'un individuo mite, gentile, incapace di accorgersi dell'orrore che lo circonda. E continuerà, come si vede, a circondarlo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL SOSPETTO. REGIA. THOMAS VINTERBERG. INTERPRETI: MADS MIKKELSEN, THOMAS BO, ANNIDA WEDDERKOPP. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 115 MIN.

domenica 18 novembre 2012

Festival di Roma 2012

Seconda parte di questa panoramica dedicata al settimo Festival di Roma. La presenza statunitense alla manifestazione è stata all'insegna del cinema indipendente. Marfa Girl di Larry Clark, autore dei controversi Kids e Ken Park, affronta ancora una volta il mondo dell'adolescenza con un ritratto tagliente della gioventù americana. Ambientato in una cittadina del Texas la pellicola è un racconto di formazione a base di sesso, droga e rock and roll, incentrato su una giovane comunità di eccentrici artisti. Prodotto per una distribuzione solo sul web il film è una riuscita riflessione sulle contraddizioni della società astatunitense. A Glimpse Inside The Mind of Charles Swann III è l'opera seconda di Roman Coppola, figlio di Francis, e vede Charlie Sheen nei panni di un art director sciupa femmine che, lasciato dalla sua fidanzata Ivana, cade in crisi depressiva. Charles, questo il nome del protagonista, intraprende allora un delirante percorso di autoanalisi nel tentativo di rassegnarsi all'idea di una vita senza Ivana. Visivamente interessante (il film è ambientato nella Los Angeles degli anni '70) la pellicola è un divertissement riuscito, prossimo allo stile surreale di Wes Anderson, di cui Coppola è stato sceneggiatore per Il treno per il Darjeeling. Ottimi i comprimari, su tutti Jason Schwartzman e Bill Murray. The Motel Life è un'opera prima firmata dai fratelli Gabriel e Alan Polsky, tratta dall'omonimo romanzo (pubblicato da Fazi) del celebre cantante country Willy Vautlin, leader della band Richmond Fontaine. La pellicola esplora l'intenso legame tra due fratelli (rispettivamente Emile Hirsch e Stephen Dorff) segnati da una tragica infanzia. Ambientata a Reno, la vicenda di questi due reietti in cerca di una speranza si snoda fra le strade gelide e innevate del Nevada in un viaggio che rimanda al mitico Jack Kerouach. Chiudiamo con Bullet To The Head del redivivo Walter Hill, autore di culto della fine degli anni '70 e '80 con titoli quali I guerrieri della notte, Strade di fuoco e 48 ore. La pellicola, prodotta dal tycoon Joel Silver, vede un Sylvester Stallone, più iconico che mai, nel ruolo di un killer con un suo particolare codice d'onore, intenzionato a vendicarsi della morte del suo partner, ucciso in un'imboscata da un altro sicario, il monumentale Jason Momoa (già interprete del nuovo Conan). Nel corso delle indagini egli s'imbatte in un poliziotto coreano (Sung Kan), anch'egli sulle tracce dell'assassino. L'inedita coppia è costretta a collaborare insieme ma con due idee diametralmente opposte della giustizia. Mentre, infatti, Stallone persegue il suo obiettivo eliminando tutti i criminali che incontra sulla sua strada, lo sbirro vorrebbe procedere secondo la legge. Survoltato e divertente il film, ambientato in Louisiana, è un omaggio al cinema degli anni '80 che Hill dirige con mano sicura. Sorprendenti i premi. Il Marco Aurelio per Migliore Film è andato proprio a Marfa Girl di Larry Clark mentre il contestatissimo E la chiamano estate ha ottenuto addirittura due premi, alla Migliore regia a Paolo Franchi e alla Migliore attrice a Isabella Ferrari. Due scelte che la stampa, a ragione, ha giudicato incomprensibili. Meritato il Premio della Giuria a Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, così come quello alla sceneggiatura a The Motel Life.

Festival Roma - Premi & Commento

La Giuria Internazionale presieduta da Jeff Nichols e composta da Timur Bekmambetov, Valentina Cervi, Edgardo Cozarinsky, Chris Fujiwara, Leila Hatami e P.J. Hogan, ha assegnato i seguenti premi:

- Marc’Aurelio d'Oro per il miglior film: Marfa Girl di Larry Clark
- Premio per la migliore regia: Paolo Franchi per E la chiamano estate
- Premio Speciale della Giuria: Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi
- Premio per la migliore interpretazione maschile: Jérémie Elkaïm per Main dans la main
- Premio per la migliore interpretazione femminile: Isabella Ferrari per E la chiamano estate
- Premio a un giovane attore o attrice emergente: Marilyne Fontaine per Un enfant de toi
- Premio per il migliore contributo tecnico: Arnau Valls Colomer per la fotografia di Mai morire
- Premio per la migliore sceneggiatura: Noah Harpster e Micah Fitzerman-Blue per The Motel Life 


Dunque, si è finalmente conclusa la settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Tutto vi è stato combattuto, le difficoltà sono iniziate - come si ricorderà - fin dalla direzione affidata a Marco Muller,  tra mille controversie (il presidente Gian Luigi Rondi, favorevole alla conferma di Piera Detassis, s'è dimesso in polemica con la decisione assunta). Insediato solo a giugno, Muller ha fatto quanto ha potuto nei mesi che aveva a disposizione: è stato incauto ad annunciare una manifestazione composta da prime mondiali, ma il linciaggio che gli è stato riservato - durante la presentazione di un'edizione che di glamour ne aveva ben poco - forse è suonato eccessivo. Veniamo ai film. Durante le giornate, si è più volte sottolineato - in maniera composta in sede critica, assai meno nel corso delle proiezioni per la stampa - l'inadeguatezza, o presunta tale, di taluni titoli in concorso. Premesso che il livello generale delle pellicole di sicuro non può essere considerato alto, si sa pure che i festival sono come le vendemmie: a volte vanno bene, altre sono meno favorevoli. Aver dovuto comporre una selezione in tempi relativamente brevi, come dicevamo, ha di certo avuto la sua parte, ma un ruolo l'ha giocato ugualmente la formazione - e le conseguenti scelte - del direttore. Ci spieghiamo meglio: Marco Muller è uno tra i migliori nel suo campo in Italia (se non proprio il migliore), ma è più adatto a mostre di altro tipo. A Venezia ha senz'altro fatto bene, tuttavia la dimensione ideale per lui rimane - ad avviso di chi scrive - Locarno: "il più grande dei festival piccoli, il più piccolo dei grandi", secondo una felice definizione a suo tempo coniata da Tullio Kezich. Ora, Roma è partita come una festa del cinema (ha scelto di mutarne la dizione in festival Rondi), da collocarsi nelle ottobrate romane (e non nel piovoso novembre inoltrato di questa volta), guardando alla Hollywood dei grandi registi e con un occhio al red carpet. Pian piano, dette caratteristiche sono andate sfumando, senza che la manifestazione ne assumesse di nuove. Lo stallo cui ora si è giunti vorrà preludere - noi speriamo - a un ritorno al passato che restituisca alla kermesse romana il glamour che aveva all'inizio e del quale, a quanto sembra, non può fare a meno.

I premi: la scelta di "Marfa Girl" come miglior film, non foss'altro quale riconoscimento ad un cineasta non allineato ed azzardoso nella scelta dei temi come Larry Clark, è giusta. Il riconoscimento per la migliore regia a Paolo Franchi ed alla migliore attrice per Isabella Ferrari gratificano entrambi il film più discusso in concorso, "E la chiamano estate" (accolto da sonori fischi durante la proiezione stampa): antonioniano fino al midollo, esso è tutto calato negli anni Sessanta, per stile ed ispirazione. Ed è proprio questo suo essere volutamente, in un certo senso, obsoleto, che conferisce alle immagini un fascino obliquo. Bene anche il Premio Speciale della Giuria a Claudio Giovannesi per "Alì dagli occhi azzurri": un lavoro intenso, sentito, che riesce a parlare del tema degli immigrati raccontando una storia forte e credibile. Nulla da dire pure su Jérémie Elkaim miglior interprete maschile: ha figurato bene nel delizioso "Main dans la main", che conferma Valérie Donzelli tra le migliori registe in attività. Infine, "The Motel Life" di Gabriel e Alan Polsky, molto apprezzato dalla critica tutta, è stato ricompensato per la sua cosa più indovinata, la sceneggiatura. 

Dei film che non hanno trovato posto nella premiazione, ci piace segnalarvi il grintoso, violentissimo "A Bullet To The Head" del redivivo Walter Hill, uno dei vertici del Festival; ed il delizioso "Populaire" di Régis Roinsard, gli anni '50 mai così tali in una commedia romantica e divertente. Ne parleremo estesamente in sede di recensione, quando i due film approderanno nelle nostre sale. Arrivederci alla ottava edizione!
 



martedì 13 novembre 2012

Festival Internazionale del Film di Roma 2012

Dopo quattro giorni di proiezione si possono in parte tirare le somme di questo settimo Festival Internazionale del di film di Roma, diretto per la prima volta da Marco Muller. La manifestazione sta offrendo buoni film ma niente di memorabile, manca totalmente il glamour, pressoché assenti il cinema statunitense e i suoi divi. Il film di apertura, Aspettando il mare, del kazako Bakhtyar Khudojanazarov è un metaforico (e non solo) viaggio in una terra arcaica e dimenticata. Un melò esotico che non ha entusiasmato i critici e il pubblico. Mental di Paul J. Hogan (già autore de Le nozze di Muriel e Il matrimonio del mio migliore amico) è, invece, una commedia incentrata su una famiglia disfunzionale australiana composta da un padre, sindaco di una cittadina australiana (Anthony La Paglia), una madre che adora Tutti insieme appassionatamente e cinque figlie, convinte di essere fuori di testa. Ci penserà una tata sui generis, Shaz (interpretata dalla brava Toni Colette), a convincerle che in realtà loro sono assolutamente normali e i vicini i veri psicopatici. La pellicola è una scoppiettante commedia, ironica e commovente, che ha divertito molto. Al contrario Back to 1942 del cinese Xiaogang Fen è un polpettone di quasi tre ore che ha messo a dura prova gli spettatori. Ambientato in Cina durante il drammatico 1942, il film narra la terribile carestia nella regione dell'Henan che causò circa tre milioni di vittime, nel disinteresse del generalissimo Chiang Kai Shek, impegnato nella guerra contro il Giappone. Nel kolossal, costato oltre 30 milioni di dollari, sono presenti anche Adrien Brody, nei panni di un giornalista del Time, e Tim Robbins in quelli di un sacerdote cattolico. Il cinema italiano è presente con ben 21 film alla selezione. Alì ha gli occhi azzurri, opera prima di Claudio Giovannesi, offre uno spaccato realistico di una generazione quasi perduta che s'aggira annoiata e in cerca di emozioni forti tra Ostia e Acilia, due località del litorale romano. Il protagonista Nader è un sedicenne egiziano nato in Italia con l'anima divisa in due tra le sue radici musulmane e il suo sentirsi italiano. Un ragazzo che non sa bene a quale cultura appartiene e che non è accettato interamente né dai suoi compagni né dai suoi familiari. Lo stile del film è documentaristico, ben fotografato da Daniele Ciprì, e i toni del racconto rimandano sopratutto a Pasolini e ai suoi ragazzi di vita. Manca una struttura drammaturgica e il regista si fa vanto della sua tradizione documentaristica affermando nel press book che "L'obiettivo della scrittura era l'assenza di finzione.". La pellicola, infatti, è la naturale prosecuzione di Fratelli d'Italia, un documentario diretto dallo stesso autore nel 2009. Gli interpreti, presi tutti dalla strada, sono bravissimi ma Giovannesi dovrebbe capire che la finzione spesso è una metafora drammaturgica potente della realtà. Se il giovane regista vedesse Mean Streets di Martin Scorsese, forse capirebbe che è possibile fare un cinema realistico senza rinunciare allo spettacolo. Deludente L'isola dell'angelo caduto, opera prima del romanziere Carlo Lucarelli. Tratta dal suo omonimo lavoro la pellicola mette in scena un giallo ambientato in piena era fascista su un'isola sperduta del mediterraneo. Indeciso su quale stile adottare il film alterna il thriller all'horror con incursioni nel fumettistico. Un'invasiva presenza di effetti digitali rende il tutto patinatissimo e senza una precisa visione stilistica. Il cecchino di Michele Placido è invece un polar, ben diretto dal nostro attore italiano che mette in scena una caccia all'uomo tra Daniel Auteuil e Matthieu Kassovitz, rispettivamente un commissario di polizia e un rapinatore di banche, ex cecchino dell'esercito francese. Ben fotografato da Arnaldo Catinari Il Cecchino è un Romanzo criminale in salsa francese, un film di genere nel senso più nobile del termine. Un pasticcio trash è invece Il volto di un'altra di Pappi Corsicato, un melò a metà strada tra Douglas Sirk e Pedro Almodovar. Il regista napoletano (I buchi neri, I vesuviani) dirige una vicenda improbabile che ha come protagonista la star televisiva di un programma di bellezza (Laura Chiatti), vittima di un incidente stradale che le sfigura il volto. Suo marito, chirurgo plastico (Alessandro Preziosi), primario della clinica Belle Vie, la ricovera per operarla ma scopre che in realtà sua moglie ha solo delle lievi escoriazioni. Per ingannare l'assicurazione e intascare i dieci milioni di indennizzo i due architettano un piano diabolico a colpi di botox. Tra numeri musicali e citazioni che vanno da Hitchcock a Bunuel, Il volto di un'altra è una delirante e sgangherata critica alla televisione e alla società dell'apparire. Divertente ma davvero camp.

giovedì 8 novembre 2012

Venuto al mondo

Ancora tormentata dalle immagini della guerra, Gemma decide di recarsi a Sarajevo, col figlio Pietro, per vedere una mostra in memoria delle vittime dell'assedio, su invito dell'amico poeta Gojko. Nella capitale bosniaca ospitante i Giochi Olimpici Invernali del 1984, era stato lui a presentarle Diego, squattrinato fotografo da subito divenuto l'amore della sua vita. Altre figure sono, a quell'epoca,  importanti nella vita della donna: ad esempio Aska, una ragazza musulmana musicista e ribelle; o Sebina, la sorellina di Gojko. L'amore per Diego, pur grande, non riesce a colmare in Gemma il dolore per la propria sterilità. Rivelatasi impercorribile la via dell'adozione, ella accetta di servirsi dell'utero di Aska per avere un bimbo: a tal scopo, getta Diego fra le braccia di quest'ultima, salvo
poi venir assediata dalla gelosia e dai sensi di colpa. Ma nella città che ancora porta visibili i segni delle distruzioni, l'attende ora una verità imprevedibile, destinata a sconvolgerle l'esistenza...

Quarto lungometraggio diretto da Sergio Castellitto, come il fortunato "Non ti muovere" (2004) tratto da un romanzo di sua moglie Margaret Mazzantini, "Venuto al mondo" ha impostazione assai simile al predecessore: confezione e cast pensati per un mercato più ampio di quello indigeno, struttura da melodramma all'antica, scioglimento coinvolgente. E' un modo di far cinema per certo non nuovo o rivoluzionario, tuttavia di sicura presa e, probabilmente, dotato d'un proprio pubblico.
Il problema, con Castellitto, è però sempre lo stesso: il nostro s'innamora dei personaggi, non prende alcuna distanza emotiva da loro, spinge il pedale sino ad una forzosa esazione della lacrima. Nella fattispecie, poi, la situazione è estremamente delicata: siamo nel territorio del romance ai tempi delle bombe, un genere che ha prodotto sovente - si pensi al bellissimo "Un anno vissuto pericolosamente" (1982) di Peter Weir od all'intenso "Sotto tiro" (1983) di Roger Spottiswoode - pellicole di vaglia. Solo che qui, Sarajevo, è mero sfondo su cui collocare la vicenda: la Storia e la storia entrano in rotta di collisione soltanto nella scena madre, in modi discutibili e - soprattutto - a fini discutibili.

Ci spieghiamo meglio. Non detto, il tema del film è quello di varie opere recenti: la maternità veduta quale condizione fondamentale e imprescindibile per la donna. Un argomento nell'aria: lo si trova, in termini di commedia, nel recentissimo "Tutti i santi giorni" di Paolo Virzì; oppure, virato al dramma, nello splendido "Thy Womb" di Brillante Mendoza (in concorso all'ultima edizione di Venezia), dove la protagonista accetta una nuova moglie per il marito, purché giunga il figlio che lei non è stata capace di darle. Quest'ultima frase l'abbiamo usata volutamente. In "Venuto al mondo", Gemma sacrifica senza colpo ferire il suo sentimento per Diego, la dignità dell'altrui corpo oltre che quella personale, il futuro proprio e del compagno: il tutto, in difesa di ciò che il cattolicesimo più retrivo definirebbe "l'amore più grande". Non albergano dubbi, nelle immagini: persino un orrendo stupro etnico è presentato alla stregua d'una ferita in qualche modo sanabile, a fronte di una vita che deve nascere. La recitazione di tutti s'adegua al disegno registico, trovando - prevedibilmente - in Penelope Cruz un'interprete adeguata e sensibile; tuttavia troppe volte survoltata, enfatica. Giusto come il film.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

VENUTO AL MONDO. REGIA: SERGIO CASTELLITTO. INTERPRETI: PENELOPE CRUZ, EMILE HIRSCH, ADNAN HASKOVIC, LUCA DE FILIPPO, SERGIO CASTELLITTO. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DURATA: 132 MINUTI.