mercoledì 26 giugno 2013

World War Z

Il funzionario delle Nazioni Unite Gerry Lane, ritiratosi a vita privata, è ora solo un tranquillo padre di famiglia che adora preparare la colazione per sua moglie Karin e le loro due amatissime bambine. Mentre guida la macchina per condurle a scuola, un'agitazione frenetica si diffonde nelle strade, tosto trasformandosi in manifestazioni di panico. Un misterioso virus, simile alla rabbia, assale gli esseri umani e li trasforma in zombie: Philadelphia ne viene contagiata, mentre le altre grandi città degli Usa man mano stanno cadendo nelle mani dell'aggressiva specie. Le autorità domandano a Gerry di ritornare in campo: egli, pur riluttante, accetta, perché gli garantiscono sicurezza per i suoi cari. La prima tappa del viaggio è la Corea del Sud, ove sembra che tutto abbia avuto inizio; dipoi ci si sposta a Gerusalemme, dove i contaminati danno la scalata ad un altissimo muro formando una piramide di corpi; infine -  accompagnato da una soldatessa israeliana, Sagen - il nostro approda a un laboratorio di virologia in Scozia, in cui sperimenta su se stesso un possibile antidoto al morbo...

Ci son voluti anni per portare su grande schermo il romanzo di Max Brooks - figlio del comico Mel e dell'attrice Anne Bancroft - "World War Z. La guerra mondiale degli zombi" (2006, Edizioni Cooper), dato che il film interessava sia alla casa di produzione di Leonardo DiCaprio sia a quella di Brad Pitt. Alla fine, è quest'ultima che ha avuto la meglio, dando il via ad una lavorazione assai travagliata, pure dal punto di vista creativo: il regista Marc Forster ("Quantum of Solace") ha respinto la prima stesura di J.Michael Straczynski, passata a Matthew Carnahan ("State of Play"), col conseguente ritardo sulla lavorazione. A ciò s'aggiunga che, al termine delle riprese, il finale è stato giudicato insoddisfacente: a riscriverlo sono stati chiamati Damon Lindelof e Drew Goddard ("Lost"), si sono dovuti girare ben 40 minuti di nuovo ed i costi sono lievitati, così, da 125 a quasi 200 milioni di dollari.

Ciò detto, i ripensamenti, i tagli - e le inevitabili suture - durante la visione non si avvertono affatto. Per certo, "World War Z" non mostra segni di originalità, il copione segue la falsariga di quasi tutti i blockbuster degli ultimi anni: l'eroe, buono e nella fattispecie pure bello, affronta prove difficili per difendere la propria comunità familiare e tornare a casa (da Odisseo in poi, davvero, si è inventato poco). C'è da aggiungere, a nostro avviso, che nell'azzeramento dei generi e nel livellamento a misura di action, stavolta è stato azzardosamente coinvolto l'horror: per lo più quello di zombie, uno tra i più irriducibili. Basti guardare alla saga dei morti viventi di Romero - segnatamente a "Zombi" (1978), il capitolo cui il film di Forster si è maggiormente ispirato - od a "28 giorni dopo" (2002) di Danny Boyle per rendersi conto, ad esempio, che il gore è stato nella fattispecie mitigato sino a quasi sparire non essendo più il target quello degli adulti, bensì dei teen-ager. Nei limiti che abbiamo detto il film funziona, ma - a differenza dei titoli che abbiamo ricordato, ancor oggi citati e venerati - è destinato all'obsolescenza repentina di tutti i prodotti di questo tipo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

WORLD WAR Z. REGIA: MARC FORSTER. INTERPRETI: BRAD PITT, IAN BRYCE, DEDE GARDNER, JEREMY KLEINER. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 116 MINUTI.


giovedì 20 giugno 2013

Cha Cha Cha

Corso, ex-agente di polizia passato all'investigazione privata, riceve l'incarico di tenere d'occhio il figlio sedicenne di Michelle, attrice di limitato talento con la quale ha avuto tempo addietro una relazione e che è, ora, legata al potente avvocato Argento. Purtroppo il sorvegliato, all'uscita di una discoteca, perde la vita in un curioso incidente stradale: un fuoristrada partito da fermo travolge la vettura da lui guidata, per poi dileguarsi rapidamente. Tampinato dall'ispettore Torre, in precedenza suo capo e ambiguo nei comportamenti, il detective s'imbatte in una speculazione edilizia che ha a che fare con l'accoppamento di un ingegnere: viene minacciato e picchiato ma non desiste, magari perché per Michelle prova ancora qualcosa...

Pare cavato da un vecchio film di Risi padre, il titolo "Cha Cha Cha": richiama la commedia nostrana, il periodo del boom, il suono dei juke-box, il sapore del gelato a stecco. Si tratta d'un collegamento fallace, però: qui siamo nella contemporaneità ed in pieno noir chandleriano, con tanto di dark lady, scene in notturna, segreti inconfessabili, malavita in doppio petto. Tutto l'armamentario del "genere" detestato da Adorno a causa della sua confusione sfila in parata per la gioia del cinefilo: ma, a render più appetibile il piatto, c'è l'ambientazione in una Roma contemporanea gonfia ed angosciante, carica di cattivo gusto e di sinistri figuri, veduti sotto una lente che pare deformante ed è, purtroppo, solo realistica. Parafrasando il titolo dell'ultimo film di Sorrentino, si potrebbe dire: la grande bruttezza.

Tentativi di girare pellicole di questo tipo, in Italia, ce ne sono già stati: ci ha provato, non una volta, Gabriele Lavia (ad esempio, nell'86, in "Sensi"), con risultati da dimenticare; meglio ha fatto Carlo Vanzina trent'anni fa con "Mystere" (1983), azzeccando nel mixer le giuste dosi di brividi ed ironia. Qui non tutto scorre come dovrebbe, la sceneggiatura ha qualche buco, gli attori non sono sempre a posto (la Herzigova non riesce a dare sufficiente spessore al suo personaggio, anche lo sbirro di Amendola risulta poco o niente approfondito). Ma, tra una citazione cinefila e l'altra (il pestaggio del protagonista nudo viene da "La promessa dell'assassino", la vettura bloccata con un espediente da "Beverly Hills Cop", certe atmosfere dritte da "Chinatown"), Marco Risi licenzia un'operina che si lascia guardare con piacere: Argentero è stropicciato e fascinoso il giusto per sembrare un "private eye"della tradizione, il ritmo non manca e lo scioglimento - pur se in qualche modo ipotizzabile - dà al tutto un tocco d'impegno civile che davvero non guasta.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

CHA CHA CHA. REGIA: MARCO RISI. INTERPRETI: LUCA ARGENTERO, EVA HERZIGOVA, CLAUDIO AMENDOLA, PIPPO DELBONO. DISTRIBUZIONE: 01.
DURATA: 90 MINUTI.

lunedì 10 giugno 2013

Stoker

La vita tranquilla e solitaria di India Stoker (Mia Wasikowska: superlativa) viene sconvolta quando, nel giorno del suo diciottesimo compleanno, perde il padre Richard (Dermot Mulroney), a seguito di un incidente. India è una ragazza dalla spiccata sensibilità che, dietro al comportamento impassibile, maschera i sentimenti e le sensazioni intime, conosciute e comprese soltanto dal genitore scomparso. Al funerale di Richard, ella incontra lo zio paterno Charlie (Matthew Goode), che dopo una lunga assenza torna proprio con l’intenzione di restare accanto a lei e a sua madre Evie, donna fragile e instabile (Nicole Kidman). India inizialmente non si fida del parente; tuttavia ne subisce il fascino misterioso, soprattutto quando si rende conto d'avere parecchio in comune con lui. E mentre Charlie inizia gradualmente a rivelarsi, lei ne è vieppiù infatuata, e capisce che il suo arrivo nella casa non è affatto casuale. Lo zio è lì per lei, ed intende guidarla a comprendere lo strano destino che l'attende...

"Quale mio primo film in inglese, non volevo che esso si reggesse sui dialoghi. Piuttosto, desideravo esplorare un soggetto universale, come le dinamiche famigliari". E' così che Park Chan-wook ha scelto di giustificare ai propri fan la sordina messa a sesso e violenza in "Stoker": il cineasta coreano, noto soprattutto per lo splendido "Old Boy" (2003), li aveva abituati a ben altro. Tuttavia inquieta, non poco disturba questa favola crudele che si muove tra Lewis Carroll ed Alfred Hitchcock, dentro ad un contesto che oscilla tra grazia e ferocia per poi chetarsi - si fa per dire - in un impossibile ossimoro. "E' un copione in cui c'è molto spazio per il regista, se ne potevano trarre film molto diversi tra loro", ha spiegato il nostro. E' vero: lo spiazzamento - che lo spettatore prova in modo pressoché ininterrotto nel corso della visione - nasce proprio da questa incertezza, dall'impossibilità di prevenire gli sviluppi della storia, addirittura d'individuarne la scaturigine.

Dicevamo della mescolanza tra fairy tale e suspense movie: sorprende, Park Can-wook, per l'abilità con cui si muove fra i due registri. Immaginate una versione survoltata e parossistica de "L'ombra del dubbio" (1943), nella quale i fantasmi e le ossessioni - che Hitchcock , a eccezione del tardo "Frenzy" (1972), aveva sempre raccontato facendo ricorso alla metafora, alla litote od all'ironia  - siano invece resi espliciti; o ad una rilettura apocrifa e delirante del mito di Edipo - già alla base, d'altro canto, del citato "Old Boy". Le immagini della campagna del New England, il tempo che scorre lento dentro ad una tenuta, i personaggi divisi tra aggressività passiva e sinuosa fascinazione si frammischiano dando vita ad una vicenda insinuante e malvagia, distonica e morbosa. Il bildungroman messo in scena è tra i  più atipici mai apparsi sullo schermo, piegato com'è alle regole d'uno psychothriller malato e roso. C'è sangue, c'è morte, c'è attrazione erotica in "Stoker" (concepito da Chan Wook, tanto per cambiare, alla stregua d'omaggio al capolavoro hitchcockiano, "Vertigo"): al pari che in un libro di Cornell Woolrich, certo, magari "Waltz into Darkness" (1949). Ma, pure, come in quella superba novella di Frank Wedekind, "Mine-Haha" (1903): e provateci voi, a creare un connubio tra fonti d'ispirazione tanto distanti. A patto, ovviamente, di non chiamarvi Park Chan-wook.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

STOKER. REGIA: PARK CHAN-WOOK. INTERPRETI: MIA WASIKOWSKA, NICOLE KIDMAN, MATTHEW GOODE. DISTRIBUZIONE: FOX. DURATA: 99 MINUTI.




martedì 4 giugno 2013

Holy Motors

La giornata di Oscar si svolge in una limousine extralunga guidata da Céline, misteriosa dama bionda ch'è per lui una sorta di assistente tuttofare. Egli, per professione, passa da una vita ad un'altra: uomo d'affari, anziana mendicante, performer per realtà virtuali, mostro, assassino dei bassifondi, vecchio morente, padre di famiglia ed altro ancora. Forse vi sono dei committenti, forse no; il nostro sostiene d'esser ancora motivato dalla "bellezza del gesto", dall'obbligo di mostrarsi ogni volta differente e creativo...

E' difficile, scrivere una sinossi di "Holy Motors". Carax - tornato alla sua migliore forma, quella di "Rosso sangue" (1986) - si conferma cineasta ambizioso sino alla presunzione, azzardoso al punto da rischiare il disastro (quanto si era verificato, nel '91, con "Gli amanti del Pont-Neuf", e ripetuto nel '99 con "Pola X"). Già l'incipit, il regista che si risveglia e disvela una porta nel muro che lo conduce in una sala cinematografica, con gli spettatori seduti di fronte (una palese citazione dal King Vidor de "La folla"), è di quelli che possono incuriosire o irritare. Si tratta, pure, di una sorta di anticipazione: tutto il film si muoverà lungo le medesime coordinate, prendendosi il rischio di deragliare. Ciascuno dei personaggi interpretati dal protagonista fa riferimento ad un "genere", dal grottesco al dramma familiare, dal musical all'action movie; gli omaggi a cineasti amati non si contano, Georges Franju e Tod Browning, Cocteau e Bertolucci, Kubrick e Clair.

Ciò detto, chi si figurasse un'opera tutta di testa, algida ed intellettualistica, sbaglierebbe di grosso. Carax è anzi addirittura viscerale - dando un'immagine assai peculiare dell'incubo morale e sociale in cui viviamo - nel cercare la partecipazione emotiva del pubblico, sollecitato a scuotersi, a partecipare (la platea iniziale è composta, non a caso, da dormienti). Quello che potrebbe sembrare un monologo interiore, in realtà è una provocazione di tipo dadaista, che vuole riconciliare con un'idea di esistenza più diretta e naturale. Colga il segno o meno, ognuno valuterà con la propria sensibilita; ma nessuno, crediamo, potrà disconoscere quanto questo caleidoscopio d'immagini sia sorprendente e, a tratti, geniale. A ben pensarci, "Holy Motors" assomiglia per diversi aspetti a "La grande bellezza" di Sorrentino. Qui è Parigi, come lì Roma, la coprotagonista della vicenda, ai più e per i più invisibile (e Céline sollecita infatti ad un certo punto Oscar a guardarla, la città); in entrambi i lavori, inoltre, un'umanita regredita e sconfitta si muove senza speranze o gioia. Ma se la disperazione notturna, devastata, pare la stessa, Carax possiede bastevole talento per essere allo stesso tempo più rigoroso e ironico (a parità di sicumera, verrebbe da aggiungere); insomma, dove Sorrentino - in modo lodevole, però un poco affannoso - cerca, il francese trova. L'interpretazione di Denis Lavant è, semplicemente, monumentale.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

HOLY MOTORS. REGIA: LEOS CARAX. INTERPRETI: DENIS LAVANT, EDITH SCOB, EVA MENDES, KYLIE MINOGUE, MICHEL PICCOLI. DISTRIBUZIONE: MOVIES INSPIRED. DURATA: 115 MINUTI.