mercoledì 28 settembre 2016

Café Society

New York, anni Trenta. Bobby Dorfman lascia la bottega paterna d'orefice per andarsene in California, dove lo zio gestisce un'agenzia artistica che ha sotto contratto parecchi divi hollywoodiani. Infastidito dall'arrivo del nipote e persuaso della sua incapacità, dopo averlo a lungo fatto attendere, lo riceve e lo assume come fattorino. Bobby, smarrito a Beverly Hills e con la mente a New York, ritrova interesse davanti agli occhi incantevoli di Vonnie, segretaria - e, in segreto, amante - del dovizioso parente. Per lui è amore a prima vista, per lei no: ma le circostanze giocano a favore del sentimento di Bobby, che le propone di sposarlo e trasferirsi con lui nel Village newyorkese. Inaspettatamente, le cose mutano di nuovo, e Vonnie decide in un altro modo. Rientrato nell'unica città dove riesce ad immaginarsi, Bobby dirige con un talento indiscutibile il "Café Society", night club sofisticato che in breve tempo diventa un luogo alla moda, un posto in cui s'incontrano i rappresentanti del bel mondo. Coniugato e papà, oltre che uomo di successo, anni più tardi vede ricomparire, a sorpresa, la mai obliata Vonnie. Complice lo champagne, Bobby scopre che l'attrazione per l'antico amore è ancora forte ed impetuosa...


Quando non è impegnato a dirigere drammi dal sapore bergmaniano ("Interiors" o "Settembre", a dirne due), oppure è alle prese con vicende estremamente complesse (un titolo per tutti: "Crimini e misfatti"), Allen mette in scena con ammirevole persistenza sempre il medesimo personaggio: uno schlemiel solo sulla carta, un antieroe che simula d'essere un loser, un individuo che nutre illusioni sapendo quante siano le possibilità che vadano deluse. Detto personaggio ha attraversato il tempo e i tempi, trovando incarnazione nella contemporaneità però pure in epoche diverse ("Amore e guerra", per citarne uno), incarnato dal nostro ma, con l'avanzare della vecchiaia, lasciando il posto ad eccellenti impersonatori. In "Café Society" - il film suo più compiuto ed affascinante degli ultimi tre lustri, assieme al memorabile "Blue Jasmine" - è un superbo Jesse Eisenberg a indossarne i panni, a essere mosso da un'ambizione che non sa assumere dei contorni precisi, e a diventare solo "un cervo abbagliato dai fari" in presenza dell'innamoramento. Collocato nella seconda metà dei '30, con l'autore che si riserva di raccontare gli eventi con una mai invadente voce over, il film parte in guisa di una commedia scoppiettante e procede così a lungo, con uno splendore figurativo e un'eleganza di composizione che ricordano il Lubitsch dei vertici. Il rimpallo delle battute è formidabile, il sottotesto comico trascinante: la felicità dei protagonisti è, poi, contagiosa, giunge in platea suscitando sorrisi e, via via, commozione.



Al momento della svolta narrativa, la love story mancata sembra lentamente rifluire e scomparire, per poi riapparire in scena senza preavviso. E i cuori della giovane coppia riprendono a battere all'unisono, in un breve incontro che lo skyline di Manhattan s'incarica di sottolinear, con incanto immarcescibile. Tornano in mente Alvy e Annie, di cui Bobby e Vonnie paiono a tratti progenitori: lo spleen agrodolce è lo stesso, e il clima di struggimento in cui si lasciano ci lascia interdetti ed immalinconiti, giusto com'era lì. Tuttavia, invecchiato bene, Allen sa che nel futuro lontano l'unico possibile antidoto alla vecchiezza amara sarà il ricordo. L'impossibilità a essere in due, a portare a compimento il desiderio, si muta in dolce nostalgia, in eternazione della memoria del primo amore. Ciascun attimo dell'esistenza di ognuno di loro verrà vissuto con la consapevolezza che l'altro condivide quella passione, quell'abbandono che avevano da essere eterni e tali non sono stati. E, in una sera di capodanno, il sembiante tra dolente e trasognato dei due testimonia d'una fiamma che non si spegne, d'un segreto che sarà custodito gelosamente da entrambi. Nel cuore. Per sempre.

                                                                                                                                     Francesco Troiano


CAFE' SOCIETY. REGIA: WOODY ALLEN. INTERPRETI: KRISTEN STEWART, JESSE EISENBERG, STEVE CARELL, BLAKE LIVELY. DISTRIUZIONE: WARNER BROS. DURATA: 96 MINUTI.

                                                                            

martedì 20 settembre 2016

La vita possibile

In fuga da un marito violento, che le denunce e le diffide non sono riuscite a tenere a bada, Anna lascia la sua casa a Roma, insieme al figlio tredicenne Valerio. La donna si reca a Torino, dove viene accolta da Carla, attrice di teatro oltre che amica di vecchia data. Preso alloggio nel minuscolo appartamento con soppalco di quest'ultima, felice tanto da accogliere a braccia aperte l'antica sodale ora in difficoltà, Anna si mette in cerca di un lavoro per dare sicurezza a se stessa e al figliolo: ma Valerio soffre per la lontananza dal padre e dagli amici romani; tenta di alleviare la propria difficoltà accompagnandosi ad una prostituta dell'est, che potrebbe esser sorella maggiore, e a un ristoratore francese ex-calciatore, con una pena segreta...

"La vita possibile è un film sulla speranza, sulla forza delle donne, sulla capacità di nascere e rinascere ancora". E' al suo quinto lungometraggio per il grande schermo, Ivano De Matteo: la sua filmografia di regista - è, infatti, anche (e prima) attore - comincia ad essere cospicua, e a richiedere un discorso un poco più articolato. Sin dalla pellicola d'esordio, il cinema del nostro si è caratterizzato per una palese sproporzione fra ambizioni e risultati: in "Ultimo stadio" (2002), le pretese da commedia satirica finivano annegate in caratterizzazioni grottesche, dialoghi imbarazzanti, vicende improbabili. Mutato registro, ne  "La bella gente" (2008) il bersaglio era certa borghesia progressista e ipocrita, incapace di trasformare le proprie idee in azioni: l'andamento della narrazione, però, risultava piattamente televisivo e la storia, meramente dimostrativa. Se "Gli equilibristi" (2012) prendeva di petto l'argomento delle nuove povertà, raccontando di un padre separato lentamente scivolante nella miseria, i toni eran quasi ricattatori, con in più un pietismo fastidioso. "I nostri ragazzi" (2014), pure grazie a un ottimo quartetto d'attori e ad un eccellente romanzo quale fonte d'ispirazione ("La cena" di Herman Koch), è - sino ad oggi - l'opera sua più riuscita: ciò indica che a De Matteo non difettano le capacità di metteur en scene, laddove invece latita la personalità autoriale che egli ambirebbe ad avere.

Quest'ultimo "La vita possibile" conferma, ci sembra, le nostre riflessioni. Alle prese con una famiglia devastata dalla violenza irrefrenabile d'un coniuge indegno, De Matteo sceglie di non scegliere: per tre quarti, il tono è quello del melodramma, con lo sgranarsi di un rosario di difficoltà e dispiaceri per i due fuggiaschi; nell'ultimo quarto, il riscatto ed una prospettiva ottimistica irrompono senza preparazione, quasi si trattasse di un auspicio piuttosto che l'armonico compiersi di una parabola. Il non aver voluto individuare un'opzione precisa sul tono da tenere, si riverbera sul disegno psicologico dei personaggi: su tutti quello di Valerio, la figura più complessa, che appare poco credibile e sbilanciata (un tredicenne con tanta libertà? e un tredicenne d'oggi, che non conosce la realtà del lavoro di una meretrice?). Anna pure, dapprincipio apprensiva per le sorti del ragazzino, pare poi dimenticarsene del tutto; sicché, alla fine, appare messa a fuoco soltanto Anna, sbalestrata ed umana in eguale misura. In definitiva, ancora una volta il cineasta romano non riesce ad essere all'altezza delle proprie pretese: le buone prove degli interpreti - migliore risulta la Golino, alle prese con un personaggio che le è evidentemente congeniale - non bastano a salvare il risultato, confuso e disorientante. Quello di De Matteo, al di là delle lodevoli intenzioni, rischia di essere un cinema senza pubblico e senza critica.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA VITA POSSIBILE. REGIA: IVANO DE MATTEO. INTERPRETI: MARGHERITA BUY, VALERIA GOLINO, ANDREA PITTORINO, CATERINA SHULHA, BRUNO TODESCHINI. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 107 MINUTI.

mercoledì 14 settembre 2016

Trafficanti

David Packouz sbarca il lunario come massaggiatore per uomini, ha una moglie e un figlio in arrivo. La sua idea - nella quale ha investito ogni risparmio - di vendere lenzuola di qualità agli istituti di riposo per anziani, si rivela sbagliata. E' in questo momento che dal passato spunta un suo ex-compagno di scuola, Efraim Diveroli, che lo convince a diventare suo socio. Sfruttando un'iniziativa poco nota del governo statunitense, iniziano una piccola attività relativa a contratti di fornitura per l'esercito. Poco alla volta, i frutti dei loro investimenti si fanno cospicui, tanto da farli vivere nell'agiatezza. Lo scoppio della prima guerra in Iraq fornisce ai due l'occasione d'un colossale aumento di livello: dipoi, ottenuto un contratto da 300 milioni di dollari per inviare armi ai soldati alleati in Afghanistan, si trovano in difficoltà perché l'impegno si rivela superiore alle loro possibilità. A questo punto entrano in scena personaggi misteriosi che si offrono di risolvere il problema, proponendo loro di rivendere ai committenti, come fosse nuova, una partita di vecchie armi dei paesi comunisti...

La storia pare incredibile, ma è vera. E' apparsa in un articolo del giornalista investigativo Guy Lawson per "Rolling Stone", ed è stata acquistata da Todd Phillips. Eh sì, perché il cineasta di successo di "Una notte da leoni" nutriva, dapprincipio, enormi ambizioni: uscito dalla prestigiosa New York University, aveva diretto degli interessanti documentari (due musicali: "Hated: GG Allin and the Murder Junkies" e "Bittersweet Model"; e uno giovanile, "Frat House", sulle confraternite universitarie). Di seguito, Ivan Reitman produceva le prime due sue commedie, "Road Trip" e "Old School", decidendone il percorso lavorativo successivo (per intenderci, la rivista "Empire" giungeva ad eleggerlo "uomo più divertente di Hollywood"). Ma, evidentemente, il nostro si era messo soltanto in stand-by, aspettando una occasione buona: e "Trafficanti" - prodotto assieme a Bradley Cooper, che ha pure una piccola parte nel film - lo era, dato che sicuramente gli ha dato modo di mostrare delle insospettate qualità.

L'approccio fa tornare in mente quello di un altro regista, Adam McKay, dal cognome inscindibilmente legato alle pellicole interpretate da Will Ferrell: bene, dirigendo "La grande scommessa" (argomento: la crisi finanziaria del 2007-2010) si guadagnava 5 nomination e l'Oscar per la sceneggiatura. Rispetto a quell'opera, "Trafficanti" è assai più godibile: non dimenticando i suoi trascorsi nella commedia, Todd Phillips imprime alla narrazione un ritmo indiavolato, mescolando sorrisi ad azione, satira sociale ad inchiesta. Sotto una veste leggera, "Trafficanti" è una trattazione pungente sugli orrori del capitalismo, sul mito del guadagno a ogni costo, sul giro vorticoso di soldi intorno ad ogni conflitto bellico (sono anti guerra ma pro danaro, dice esplicitamente uno dei protagonisti): e, adottando i moduli del cinema "commerciale", risulta ben più efficace di circostanziate denunce ed invettive stentoree viste sul grande schermo. Il merito d'una tale riuscita va pure ai due attori principali: Jonah Hill, già visto in "The Wolf of Wall Street", è una dinamo, capace di svariare su ogni registro; quanto a Miles Teller, che gioca in souplesse, ricorda il giovane Sean Penn ed è quasi altrettanto efficace.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

TRAFFICANTI. REGIA: TODD PHILLIPS. INTERPRETI: JONAH HILL, MILES TELLER, ANA DE ARMAS, BRADLEY COOPER. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 114'.