martedì 25 ottobre 2016

La ragazza senza nome

Jenny Davin è una giovane dottoressa assai considerata, tanto che un primario ospedale le ha proposto un importante incarico. Nel frattempo, gestisce il suo ambulatorio di medico condotto in cui ha accolto Julien, studente in medicina stagista. Una sera, un'ora dopo la chiusura, qualcuno suona al campanello e lei sceglie di non aprire. Il giorno seguente, scoprirà che una donna africana è stata trovata, cadavere, nelle vicinanze: è per questo che la polizia chiede di visionare la registrazione del video di sorveglianza dello studio. Si tratta proprio di colei alla quale Jenny non ha voluto rispondere. Sul corpo non v'è traccia di documenti: a questo punto, il senso di colpa conduce Jenny ad una ricerca ossessiva dell'identità della vittima...

I fratelli Dardenne concepiscono questo loro decimo lavoro - in concorso alla più recente edizione del festival di Cannes - come una specie di detection, tanto che in un primo momento s'eran risolti ad eleggere a protagonista un poliziotto. Poi la scelta s'è spostata sulla dottoressa, lungo una duplice pista: perché se è vero che ella s'ingegna a scoprire chi sia la ragazza ignota, quasi si sentisse in dovere di ripagarla pel suo disinteresse fornendole una riconoscibilità, allo stesso modo lei per lo spettatore è una sconosciuta, dato che nulla vien detto dei suoi trascorsi professionali o privati. 

Ovviamente, il personaggio di Jenny risulta, a ben guardare, apparentato ad altri dell'universo dei Dardenne, ad iniziare da quelli de "La promesse" (1996), dove pure era questione di risarcire una morte. Gli intenti dei due registi belgi restano sempre gli stessi: raccontare come la realtà sia imprevedibile, e come sempre differente sia il proprio effetto sugli esseri umani. Qui più che altrove, inoltre, la macchina da presa scruta il reale facendo scaturire il dramma e la successiva presa di coscienza attraverso i corpi, gli oggetti e le azioni delle "dramatis personae", con un rigore rosselliniano. Come in "Still Life" (2012) di Uberto Pasolini, ci troviamo davanti a una ricerca d'identità per un corpo che non trova alcuno pronto a fornirgliene una e che - per dirla con la dottoressa - "non è morto se continua ad agire nel nostro pensiero". Diversamente che in passato, i nostri affidano per la seconda volta la parte principale ad un'attrice nota in Francia: se in "Due giorni, due notti" la prescelta era Marion Cotillard, qui si ricorre ad Adèle Haenel (già vincitrice di due César). In entrambi i casi, l'intuizione s'è rivelata felice: nella fattispecie, l'interprete di "The Fighters" (2015) rende toccante l'anelito alla redenzione che guida le azioni di Jenny, facendo trepidare gli spettatori.


LA RAGAZZA SENZA NOME. REGIA: JEN-PIERRE E LUC DARDENNE. INTERPRETI: ADELE HAENEL, OLIVIER BONNAUD, JEREMIE RENIER. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 106 MINUTI.

lunedì 17 ottobre 2016

Io, Daniel Blake

Newcastle. Il cinquantanovenne Daniel Blake fa il falegname da sempre; per la prima volta, però, nella sua vita ha bisogno dello Stato, dato che è stato costretto a ritirarsi dal lavoro in seguito ad un attacco di cuore. Mentre si batte per ottenere un sussidio dopo decenni di fatiche (impresa che ha dell'impossibile, a causa delle pastoie della burocrazia inglese), conosce la ragazza madre Katie e i suoi due bambini. Per lei, l'unico modo di sfuggire a un'esistenza nella camera di un ostello londinese per i senzatetto, è quello d'accettar un appartamento in una città che non conosce, a ben 500 chilometri di distanza dalla capitale. Katie e Daniel si trovano così in una terra di nessuno, prigionieri d'un sistema che vuole la popolazione divisa in chi lavora duro e chi sfrutta i sussidi statali pur di non farlo...

Seconda Palma d'oro al festival di Cannes (la prima risale al 2006, per "Il vento che accarezza l'erba"), "Io, Daniel Blake" è un film che non si sarebbe dovuto realizzare. Eh sì, perché Ken Loach, giunto agli ottant'anni, aveva annunciato che avrebbe smesso la sua attività registica, a motivo della fatica che fare un film inevitabilmente comporta. E' stata una fortuna, che il nostro ci abbia ripensato: in primo luogo, perché egli è uno dei pochissimi cineasti che sappia rifiutar questo come il migliore dei mondi possibili; dipoi, perché è forse l'unico che abbia costantemente messo gli ultimi, i diseredati, al centro dei propri interessi; infine, perché il suo sguardo non nasconde d'essere ideologico nel miglior senso del termine, vale a dire affrontando il reale seguendo i dettami di un'etica.

"Io, Daniel Blake" è sin dal titolo - quelli col nome dentro paiono i più sentiti, dei suoi, vedi "My Name is Joe" - un lavoro appassionato ed urgente, "puro e schietto come i film di De Sica" ("Variety" dixit). L'umanità messa in scena è quella che non va sui giornali se non per categorie e statistiche; personaggi ai quali il capitalismo ripete, come un mantra, che essi non son degni di una storia - e della Storia, di cui invece sono il motore. Scritta in coppia con il sodale di sempre, Paul Laverty, l'ultima pellicola di Loach è pervasa da una disperazione che investe tutto, inclusi i partiti che hanno accettato una indecorosa resa con il sistema. La grandezza del protagonista, un working class hero anziano e malato, spicca ancor di più in un mondo senza pietà, ma nel quale egli non manca alla solidarietà verso i suoi simili (il rapporto d'affetto con Katie è fra le cose più belle che si siano viste di recente sul grande schermo). Ci sono due scene, in particolare, che sono destinate a restare: nella prima, una Katie letteralmente ridotta alla fame non resiste al desiderio di mangiare direttamente dentro lo spaccio dei poveri; l'altra, è lo scioglimento della vicenda, pregno di tristezza ma in cui risuona, forte, l'orgoglio della dignità. C'è chi, in un giornale di sinistra, ha detto che il verdetto di Cannes è stato rovinato dal massimo premio conferito a questo film. Si vergogni, costui; e si vergogni chi lo ha eletto recensore, senza il benché minimo discernimento.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IO, DANIEL BLAKE. REGIA: KEN LOACH. INTERPRETI: DAVE JOHNS, HAYLEY SQUIRES, BRIANA SHANN, DYLAN McKIERNAN. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 100 MINUTI.

lunedì 3 ottobre 2016

Quando hai 17 anni

In un aspro villaggio fra le montagne della Francia sud-occidentale, Damien e Thomas frequentano la stessa scuola. Potrebbero esser amici, ma non si sopportano: quando le parole non sono abbastanza, passano alle vie di fatto. La madre di Damien, Marianne, fa il medico; il padre, pilota militare, trascorre buona parte del suo tempo in missione. Thomas è magrebino, figlio adottivo di una coppia di contadini che vive in una remota fattoria in mezzo ai monti. Dopo molte difficoltà, la mamma adottiva di lui è, di nuovo, incinta; dal momento che la sua gravidanza si presenta complicata (nelle volte precedenti, la donna ha sempre dovuto interromperla), Marianne s'offre di aiutarla accogliendo Thomas in casa propria per il tempo necessario. I due ragazzi si trovano, quindi, sotto lo stesso tetto; e, pure a causa della forzata convivenza, il loro rapporto comincia a mutar segno...

André Téchiné ha già narrato nel suo film più bello, "L'età acerba" (1994), la genesi di un sentimento controverso e di un desiderio che nasce su spinta incoercibile della natura; tuttavia, sarebbe sbagliato ridurre "Quando hai 17 anni" alla mera descrizione di una passione adolescenziale. L'istintualità della età ingrata è certo il punto di partenza, ma il regista francese lo adopera per scandagliare una serie di tematiche: la virilità, la filiazione e quanto funge da matrice per i singoli. La sua macchina da presa si muove stando addosso ai personaggi, quasi mimandone nei movimenti l'inquietudine di fondo: però, mai si dimentica di inserirli con cura nel contesto sociale e familiare entro il quale si trovano ad agire.


Se "L'età acerba" era ambientato nella Francia del conflitto algerino, "Quando hai 17 anni" sceglie la contemporaneità e la provincia. Tra le montagne dell'Ariege, egli dipinge una comunità piccola e solidale, in cui la collaborazione ed il mutuo soccorso sono abituali e sentiti. Paiono lontani, se non addirittura inimmaginabili, i conflitti di classe: nel modo in cui Damien e Tom si cercano come se si  annusassero, si affrontano, si picchiano nel contesto di una natura selvaggia, sta piuttosto la ricerca di personali soluzioni; laddove la "confidenza" nella vita - lo dice Marianne al figlio, in una delle scene più belle del film - è la sola cosa da avere, la bussola sulla quale contare, finanche quando l'amore sembra far saltare tutti gli schemi, creando una sorta di ansia. La sceneggiatura di Céline Sciamma è efficace nella raffigurazione del difficile relazionarsi fra i protagonisti; tra loro si accomoda, quasi ad arbitrare gli scontri, la madre soccorrente e rigenerativa di Sandrine Kiberlain, strepitosa in un ruolo che si basa su sfumature e mezzetinte. Insomma, dopo qualche prova deludente, in sospetto di cedimento a logiche commerciali, Téchiné ritrova la forma delle opere migliori; e, a 73 anni, si confronta con l'età verde in maniera straordinaria. Auscultando i primi battiti dell'amore; rendendoli in immagini dolci, vitali, calde.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

QUANDO HAI 17 ANNI. REGIA: ANDRE TECHINE'. INTERPRETI: SANDRINE KIBERLAIN, KACEY MOTTET KLEIN, CORENTIN FILA, ALEXIS LORET. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 114 MIN.