mercoledì 12 aprile 2017

Le cose che verranno

Nathalie Chazeau, insegnante di filosofia in un liceo di Parigi, è sposata da cinque lustri con il collega Heinz, ha due figlioli ed una madre fragile, che necessita di continue attenzioni. Un tempo appassionata sostenitrice d'idee rivoluzionarie, ha convertito l'idealismo degli anni verdi "nell'ambizione più modesta d'insegnare ai giovani a pensare con la propria testa" e propone ai propri studenti testi che favoriscano il confronto e la discussione. La sua esistenza - che divide fra gli obblighi familiari ed un lavoro che ama - all'improvviso è travolta da una serie di eventi negativi: la mamma muore (lasciandole la gatta Pandora, alla quale è allergica, da accudire), la collana specializzata che curava per una casa editrice è soppressa, il marito le preferisce un'altra donna. Senza preavviso, Nathalie si trova da sola con tutto da ricostruire, potendosi basare sulla complicità intellettuale di un ex-studente e il pragmatismo che mai le è mancato...

Classe 1981, Mia Hansen-Love si conferma con questo "L'avenir" - il titolo italiano rende il senso, ma non la temperie - uno tra i maggiori talenti della sua generazione a livello internazionale. Già con l'opera d'esordio, "Tout est pardonné" (2007), s'era fatta notare alla Quinzane des Réalisateurs di Cannes. Il secondo film, "Il padre dei miei figli" (2009), sempre presentato nel contesto cannense, guadagnava il premio speciale della giuria nella sezione Un Certain Regard. Il 2011 è l'anno dello splendido "Un amore di gioventù", menzione speciale al Festival di Locarno. Nel 2014 in anteprima al Festival di Toronto viene presentato l'intenso "Eden". Ora, insignita dell'Orso d'Argento per la miglior regia alla Berlinale, la cineasta trova un prestigioso riconoscimento a suggellare la prima parte della sua carriera.

Nelle immagini incipitarie, Nathalie ed i suoi visitano la tomba di Chateaubriand sull'isolotto di Grand Bé, a 400 metri da Saint-Malo. E' una sorta d'indicazione metodologica: se è "Il perdente radicale" di Enzensberger il primo dei molti testi filosofici citati nel corso della narrazione, dei filosofi evocati - da Rousseau ad Adorno, da Schopenhauer a Horkheimer, da Aron a Jankélévitch - nello snodarsi della vicenda, non si deve pensare ad un gusto snobistico, ad una mera civetteria da intellettuali. Gli è che la cultura è individuata dalla protagonista come uno strumento di resistenza agli agguati del destino, allo scorrere implacabile dei giorni, ad una volgarità imperante cui non ci si rassegna. Non è che Nathalie nutra soverchie illusioni (anche se, quando il coniuge annuncia la volontà di rompere, non può evitare di dirsi: "Pensavo che mi avresti amata per sempre. Che cogliona!"), ma l'ottimismo della volontà certo la guida nel suo rapporto con gli studenti, l'approccio all'esistere resta positivo pur se le cose - la collana editoriale come il matrimonio - si sfarinano celatamente. In questa leggerezza di tocco nel gestire una materia ove ogni cosa succede sotto traccia, non grida non drammi, sta la maestria della Hansen-Love: capace di chiudere con un finale memorabile, in cui a Nathalie è dato d'abbracciare il piccolo erede che le ha donato la figlia, mentre all'ex-marito tocca tornare alla sua coazione al piacere senza soddisfazioni. Pur in un cast affiatato e di alto livello, giganteggia una Isabelle Huppert per la quale davvero non basta alcuna professione di stima: quando compare sullo schermo, la magia del cinema - puntuale - si realizza.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

LE COSE CHE VERRANNO. REGIA: MIA HANSEN-LOVE. INTERPRETI: ISABELLE HUPPERT, ANDRE' MARCON, ROMAN KOLINKA, EDITH SCOB. DISTRIBUZIONE: SATINE FILM. DURATA: 100 MINUTI.

mercoledì 5 aprile 2017

L'altro volto della speranza

Khaled, rifugiato siriano scampato agli orrori di una guerra che ha sterminato quasi per intero la sua famiglia, giunge a Helsinki con l'intento di domandare asilo politico seguendo il regolare e legale iter burocratico; per, successivamente, mettersi alla ricerca - con l'appoggio delle autorità - della sorella Miriam, alla quale non è riuscito di passare il confine. Quando però il permesso di rimanere gli viene rifiutato, scappa e trova rifugio nel cortile di un piccolo ristorante (sito in uno sperduto quartiere della città), che è stato appena acquistato da tale Wikstrom. Costui, già rappresentante di camicie, ha lasciato moglie e lavoro per cambiare vita. Alla guida di un surreale, improbabile team di sala, la piccola brigata - alla quale anche Khaled  si è aggiunto - cerca di portar un po' di clientela a "La Pinta Dorada", magari trasformandola in un locale alla moda dove si serve sushi...

Orso d'argento per la regia all'ultima edizione del Festival di Berlino, "L'altro volto della speranza" è il pannello centrale del trittico "del porto", iniziato con "Miracolo a Le Havre" (2011) e destinato a concludersi con una "commedia felice". Il cinema di Kaurismaki, tanto poco prolifico quanto amato da una ristretta cerchia di aficionados, col tempo ha subito delle variazioni. Nei film del suo primo periodo, ogni tentazione poetica veniva ricondotta a terra da una società incombente sui destini di tutti: un mondo privo di luce che trovava conforto od annullamento nell'alcol, attraversato da ingiustizie sociali e contraddistinto da improvvise esplosioni di violenza. Dipoi, pur nel rispetto di una poetica di filiazione marxista, il nostro dà vita ad un processo di sublimazione della materia narrativa: quasi priva di dialoghi e di eventi clamorosi (e con un senso dell'assurdo tuttavia mai enfatizzato), ci viene sciorinata sotto agli occhi una realtà che pare al tempo medesimo vicina e lontana, quotidiana e surreale, disperata e tenera.

E' in questa seconda fase che il cineasta finlandese licenzia gli esiti più alti: "L'uomo senza passato" (2002), favola dolce e poetica che Aki - autore pure della sceneggiatura - trasforma in una travolgente riflessione sull'opportunità delle persone di "rinascere" a fronte delle violenze della società; "Le luci della sera"(2006), sconsolato ritratto di matrice chapliniana su un perdente deciso a non dar via la propria dignità di uomo, dato che solo quella gli resta; il già citato "Miracolo a Le Havre", in cui - evitando pacchiane bellurie estetiche - fa trionfare per una volta il sogno sulla disperazione. E' su quest'ultima scia tematica che si pone pure "L'altro volto della speranza": tra canzoni country e blues, sfila davanti alla cinepresa un'umanità bizzarra ed emarginata, per la quale la solidarietà è prassi prima ancora che valore. Con il consueto, magistrale uso del colore, in bilico tra surreale ed iperreale, il regista ci illustra l'Europa degli egoismi diffusi, descritta con la sua ironia stralunata, percorsa dalla sua morale eccentrica. Sequenze come l'incontro fra Khaled e Miriam, all'insegna di una commozione rattenuta dal pudore, o l'indimenticabile finale agrodolce che non vi sveliamo, dicono di una maestria registica che ha pochi eguali.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

L'ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA. REGIA: AKI KAURISMAKI. INTERPRETI: SHERWAN HAJI, SAKARI KUOSMANEN. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 108 MINUTI.

martedì 28 marzo 2017

Il permesso

Quattro persone, detenute nel carcere di Civitavecchia, escono con un permesso di 48 ore: la giovane Rossana, arrestata in aeroporto in quanto trafficante di cocaina; Luigi, sulla cinquantina, condannato per due omicidi a causa dei quali ha già scontato oltre tre lustri di pena; Angelo, 25 anni, finito in prigione per una rapina commessa con complici che tuttavia mai ha tradito; Donato, 35enne, in detenzione pur essendo egli innocente. Ognuno si sforza d'inventarsi un'altra esistenza, nel breve arco di tempo concesso; tra frustrazioni, rabbie, sconfitte, alle prese con i cambiamenti apportati dal tempo durante la loro assenza, alla fine prenderanno strade diverse ma per ciascuno sarà una scelta di svolta.

Il noir nostrano ha una parabola singolare: fatte salve le prove d'autore (si va dal mirabile adattamento del "Pasticciaccio" gaddiano allestito nel 1959 da Pietro Germi con "Un maledetto imbroglio", a talune isolate e difficilmente classificabili piccole gemme sul tipo di "Senza sapere niente di lei", firmato nel 1969 da Luigi Comencini), le prime prove significative del "genere" si possono fare risalire ad un artigiano colto e non privo di gusto come Mino Guerrini ("Omicidio per appuntamento", 1967; "Gangsters '70", 1970) o ad un atipico di talento quale Romolo Guerrieri ("Un detective", 1969). Però il maestro indigeno rimane senza dubbio Fernando Di Leo, che rilasciò una trilogia - "Milano calibro 9" e "La mala ordina" (1972); "Il boss", (1973) - degna del migliore polar d'oltralpe.

Di poi, come ognun sa, il cinema medio italiano è praticamente sparito, alla metà degli anni '80, incluso il nero autarchico: è la serie televisiva "Gomorra" e certi nuovi titoli per le sale, su tutti "Suburra" (2015), ad aver riportato in auge personaggi e stilemi di un universo filmico del quale s'eran perse le tracce. Dietro a tutto, a parte l'opera narrativa di Roberto Saviano, c'è la passione ed il talento di Stefano Sollima (chiamato già dagli States per il futuro), regista di polso sulle orme dell'indimenticato padre Sergio. Codesto lungo prologo serve ad introdurre "Il permesso", seconda prova dietro la macchina da presa di Claudio Amendola, dopo il riuscito esordio de "La mossa del pinguino" (2014). L'attore e cineasta romano ha scelto di passar dalla commedia agrodolce ad atmosfere e tematiche che ben si addicono alla sua figura di vilain disilluso e in cerca di pace; non a caso è il suo personaggio, Luigi, il più riuscito della pellicola, con una maschera che ricorda quella di un Lino Ventura. I co-protagonisti, di contro, risultano meno a fuoco, pur se l'insieme è assolutamente dignitoso: a far da valido collante, c'è da ricordarlo, un soggetto garantito dalla firma di Giancarlo De Cataldo. In definitiva, un'opera che non delude e in nulla arretra rispetto alla precedente; lascia soltanto intravedere, se proprio un appunto si vuol fare, le potenzialità che Amendola fa mostra di oramai possedere.
                                                                                                                               Francesco Troiano 

IL PERMESSO. REGIA: CLAUDIO AMENDOLA. INTERPRETI: LUCA ARGENTERO, CLAUDIO AMENDOLA, GIACOMO FERRARA, VALENTINA BELLE'. DISTRIBUZIONE: EAGLE PICTURES. DURATA: 91 MINUTI.

mercoledì 22 marzo 2017

Elle

Mentre sta chiudendo una porta-finestra della sua elegante abitazione parigina, Michèle viene assalita da uno sconosciuto che la prende a pugni e calci, la getta sul pavimento, la immobilizza e con spietatezza abusa sessualmente di lei. Rialzatasi, una vasta ecchimosi sul volto di cui non alcuno le domanderà mai la ragione, si appresta a preparare il sushi per il figlio. Tutto sembra svanito, una brutta avventura e basta. In realtà, la violata ha dimestichezza con l'orrore sin da quando era solo una bambina: suo padre, uomo molto religioso, uscito di casa finì per sterminare 27 persone, nel corso di un attacco di follia. Lo stupro - che, in ogni caso, Michèle non ha l'intenzione di denunciare - viene fuori sere dopo come nulla fosse, mentre pasteggia a champagne con degli amici. Dipoi, ella fa cambiare le serrature di casa, acquista uno spray urticante e un martello, quasi in previsione del fatto che il violentatore si rifarà vivo...

Erano dieci anni ed oltre che non si sentiva parlare di Paul Verhoeven: dopo quel "Black Book" (2006) che segnava il ritorno a girare in Europa del regista olandese, noto al grande pubblico soprattutto per il successo di scandalo di "Basic Istinct"(1992); thriller di filiazione hitchcokiana, dove egli riprendeva in maniera spettacolare ed effettistica il tema della donna mantide, già sviluppato - ed assai meglio - ne "Il quarto uomo" (1983). Verhoeven è cineasta che non ha in genere goduto di buona critica: discontinuo certo, andrebbe ricordato - oltre per i titoli di cui sopra - almeno per "Robocop" (1987), ove acutamente smontava i meccanismi della science fiction cinematografica, ibridandola con il poliziesco di revenge.

Il fatto che, quasi 80enne, egli abbia deciso di adattare per il grande schermo "Oh..." di Philippe Djian (già con un'opera sua dietro al discusso, e virtuosistico, "Betty Blue", firmato nel 1986 da Jean-Jacques Beineix), è una scelta singolare. Intendiamoci, c'erano spunti di sesso e brutalità che sicuramente sono congruenti col suo universo d'autore: ciò che sorprende, tuttavia, è lo sviluppo e l'impostazione che egli ha scelto, sin dalla decisione di mutare il titolo. "Elle", in verità, non indica il concentrarsi in maniera esclusiva sulla sua protagonista (anche se è di continuo al centro della scena): no, Michèle è più un polo d'attrazione attorno al quale ruotano una serie di rapporti, reale motivo d'interesse del nostro. Al quale dello scioglimento del plot poco importa (l'identità del colpevole si evince con facilità), laddove invece vetrioleggia con una cattiveria davvero chabroliana la borghesia di successo che campeggia nella storia. 

Isabelle Huppert, infine. Chi scrive la ritiene miglior attrice vivente in assoluto. Se ne occorresse una riprova ulteriore, si veda la divertita maestria con la quale ella affronta un personaggio azzardoso, a dir poco: basti la maniera insinuante in cui suggerisce una sorta di morboso compiacimento nella situazione venutasi a creare, la morbidezza con cui seduce un vicino di casa appena conosciuto sotto gli occhi della di lui moglie, i lampi di feroce sarcasmo che lascia guizzare durante una cena di Natale. O quel momento, sublime, in cui - direttrice di un laboratorio che produce videogame di fantaerotismo - si trova ad ammonire: "quegli orgasmi femminili sono troppo timidi!". La sua performance ha per motore l'ambiguità: nessuno sa renderla con altrettanta naturalezza. Se il film di Verhoeven è, a nostro avviso, il migliore della stagione, massima parte del merito va a questa interprete straordinaria. Isabelle. Elle.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ELLE. REGIA: PAUL VERHOEVEN. INTERPRETI: ISABELLLE HUPPERT, LAURENT LAFITTE, ANNE CONSIGNY, CHARLES BERLING, VIRGINIE EFIRA. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 130 MINUTI.

mercoledì 15 marzo 2017

Loving

Richard Loving, muratore bianco, e Mildred, ragazza di colore, si amano e - quando lei già aspetta un bambino - decidono di sposarsi e si apprestano a costruire una casa sulla terra appena acquistata. Però, nella Virgina segregazionista del 1958, tali nozze costituiscono un reato: pur se regolarmente celebrate a Washington, conducono i coniugi ambedue in prigione. Con il soccorso di un legale, riescono a uscirne a patto di trasferirsi nello stato di Washington: un esilio destinato a durare 25 anni, e che mette ad assai dura prova la forza d'animo della coppia. Finché un giovane avvocato, membro di un'associazione nata per difendere i diritti civili, non perora la loro causa: la sentenza, pronunciata dalla Corte Suprema degli Usa il 12 giugno del 1967 (da allora simbolo del diritto di tutti ad amarsi liberamente, senza distinzione alcuna di razza), pone termine alla questione, dopo un lunghissimo calvario per gli incolpevoli Loving.

Raccontata per la prima volta sul grande schermo nel 1996 nel film televisivo "Mr & Mrs Loving", per la regia di Richard Friedenberg (interpreti, Lela Rochon e Timothy Hutton), ritornata in auge grazie a "The Loving Story", documentario della HBO del 2012, la vicenda della contrastata unione dei Loving (nomen omen) viene portata ora al cinema da Jeff Nichols, che sceglie un approccio alla materia di tipo anti-hollywoodiano: la prevedibile esazione della lacrima è evitata puntando tutto sull'antiretorica, con un effetto di "raffreddamento" della temperie emotiva che a taluno potrà, forse, parer financo eccessivo. In ogni caso, grazie alla bravura degli attori, l'australiano Richard Edgerton e l'etiope Ruth Negga (che era candidata all'Oscar quale miglior protagonista), il film risulta abbastanza coinvolgente - e difatti a Cannes, lo scorso anno, venne accolto da una commossa standing ovation.

Qualcosa converrà aggiungere sull'elevato numero di pellicole che ruotano intorno alla negritudine ed ai problemi a essa connessi testé giunta nelle sale: da "Barriere" a "Moonlight" (premiato con l'Oscar), da "Il diritto di contare" a questo "Loving", senza contare i numerosi documentari prossimi venturi (da non perdere quanto meno "I Am Not Your Negro" di Raoul Peck, che prende le mosse dagli scritti di James Baldwin). Probabilmente dovuta alle polemiche degli Oscar dell'anno scorso, privi di riconoscimenti per i "black", tale abbondanza ha prodotto risultati magari non eccelsi, tuttavia sempre interessanti. Chi scrive, all'impianto fototeatrale di "Barriere" come alle pretese "arty" di "Moonlight", preferisce di gran lunga la narrazione tradizionale de "Il diritto di contare" (che con "Loving" condivide sia l'epoca sia il luogo), dove una sottile vena ironica stempera la tensione e rende palpabile la soperchieria sistematica perpetrata ai danni della comunità nera: persino nei confronti di matematiche di prim'ordine, impegnate nella spedizione in orbita dell'astronauta John Glen. L'importanza di ricordare quello che avveniva alle giovani generazioni è il compito primario di operazioni del genere: la memoria è utile e va coltivata, in epoca in cui antichi razzismi con forme aggiornate sembrano stare prendendo piede su tutto il pianeta.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LOVING. REGIA: JEFF NICHOLS. INTERPRETI: JOEL EDGERTON, RUTH NEGGA. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 123 MINUTI.

martedì 7 marzo 2017

Questione di karma

L'esistenza di Giacomo, rampollo d'una famiglia d'industriali, è stata condizionata dalla morte del padre, suicidatosi sotto i suoi occhi quando aveva appena quattro anni. Una volta cresciuto, più che occuparsi dell'azienda, ha preferito dedicarsi alle sue mille passioni. Incapace di superare il trauma che ha subito da piccino, a un certo punto s'affida alla teoria della reincarnazione: rintracciato un eccentrico e anziano esoterista, ne ricava l'indicazione che il genitore riviva in un tal Mario Pitagora, squattrinato in cerca di colpi di fortuna, perseguitato per debiti da decine di persone. Scaltrito imbroglioncello privo di scrupoli, il presunto reincarnato comprende ben presto di poter cavare ampi vantaggi dalla credulità di Giacomo: così, decide di accettare la propria parte nella recita. Ma gli esiti saranno differenti da quelli previsti...

Sulla scorta del successo di "Se Dio vuole" (2015), suo fortunato esordio alla regia, Edoardo Falcone ci riprova con questo "Questione di karma", riprendendo la formula del buddy movie e - anzi - strizzando l'occhio ai classici del genere. L'inizio, con la voce off del protagonista che riassume gli eventi, è già la dimostrazione dell'inattendibilità dell'assunto: poi, la narrazione si avvia stentatamente, ripetitiva e con l' andamento rallentato dalle conseguenze che la situazione comporta nelle famiglie delle due figure centrali. La seconda parte vede il ritmo crescere, alcune buone trovate farsi strada e taluni dei personaggi - l'ottimo Germano, su tutti, ma pure la caratterizzazione di Eros Pagni lascia il segno - acquistare spessore, fino a un doppio finale non sgradevole, comunque un tantino pleonastico.

Fin qui il giudizio sulla pellicola, ma ci pare occorrano considerazioni più generali. Nel 1970, parlando della commedia all'italiana, Goffredo Fofi scriveva che essa riscattava "quel po' di satirella di costume con tante ma tante concessioni alla furbizia, alla super-virilità, al qui nessuno è fesso, al qualunquismo, alla chiusura mentale e affettiva (gabellata per sentimentalismo familiare), in una parola alla a-moralità bassamente moralistica abbandonata dai padroni e dai preti, che da un pezzo ne fanno a meno, ai piccolo-borghesi, sempre scontenti di tutto e sempre paurosi di ogni cambiamento e soddisfatti solo di sé". D'accordo, si era in un periodo particolarmente "caldo" e certi giudizi suonan magari adesso troppo riduttivi o determinati da polemiche politiche contingenti: tuttavia, ci chiediamo cosa si potrebbe dire oggi delle incursioni nel comico-brillante, che sono l'unica strada percorsa dalla cinematografia indigena da decenni.

Se le opere criticate dal Fofi all'epoca (e dalla maggior parte della critica nostrana, anche quella togata e ufficiale), erano firmate da registi del calibro di Risi, Monicelli, Comencini, come argomentare sull'oggi dei Falcone e dei Ponti, dei Miniero e dei Genovese (del quale il riuscito "Perfetti sconosciuti" si può considerare l'eccezione e non la regola, viste le sciocchezze che l'han preceduto copiose)? Che manca del tutto il coraggio e la voglia di alzare la posta, da parte di produttori che non azzardano, sceneggiatori che non graffiano, cineasti al più notarili nelle loro messe in scena. In lavori quali "Una vita difficile", "Il sorpasso", "La visita", "Io la conoscevo bene", "La grande guerra", "Tutti a casa", "C'eravamo tanto amati", non si tremava di fronte a narrazioni adulte, a conclusioni amare o esplicitamente tragiche. E, partendo ora da presupposti meramente commerciali e dal terrore di inquietare le platee, "Questione di karma"-  come tanti prima e, temiamo, dopo - non può essere altro che l'ennesima occasione perduta.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

QUESTIONE DI KARMA. REGIA: EDOARDO FALCONE. INTERPRETI: FABIO DE LUIGI, ELIO GERMANO, ISABELLA RAGONESE, EROS PAGNI, STEFANIA SANDRELLI. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 87 MINUTI.   

mercoledì 1 marzo 2017

La legge della notte


Reduce dalla Prima Guerra Mondiale, Joe Coughlin si definisce un fuorilegge anticonvenzionale per il fatto di essere il figlio del Vice Sovrintendente della polizia di Boston, che ha - ovviamente - ripudiato assieme ai di lui insegnamenti. Divenuto un criminale nell'epoca del proibizionismo e trovato il suo posto nella guerra tra irlandesi e italiani, vive tra bottiglie di champagne, club fumosi e banditi trucidati nei modi più immaginosi. Indeciso sulla propria vocazione, Joe non è a suo agio nei panni del gangster e adopera malvolentieri la pistola: innamoratosi di Emma Gould, la donna del boss, finisce pestato dagli uomini del medesimo e condannato a morte. A salvarlo è l'intervento del padre, che tuttavia non fa sconti: lo consegna ai suoi che - prima di spedirlo in prigione - completano il trattamento a base di calci e pugni. Scontata la pena, egli accetta la proposta di Maso Pescatore, padrino mafioso che lo invia a Tampa per proteggere i suoi interessi e contrabbandare rhum. Nuovamente "fallen in love", stavolta per una bellezza del luogo, vede il proprio business intralciato prima degli incappucciati del potente Ku Klux Klan della zona, poi dal radicalismo religioso di una giovane donna predicatrice e dalle ambizioni di Pescatore, che vuole venga aperta una casa da gioco. Questa volta, per forza di cose, dovrà mettere mano alle armi e tramutarsi in quell'assassino che era assai restio a diventare...

Regista tra i più interessanti dell'ultima leva, Ben Affleck torna per il suo quarto lungometraggio ad un romanzo di Dennis Lehane, alla cui opera si era già aspirato per il suo bel debutto dietro la macchina da presa: il solido "Gone Baby Gone" (2007), bene interpretato da suo fratello Casey e da uno strepitoso Ed Harris. Ancor meglio gli sarebbe andata con il successivo "The Town" (2010), dove - adattando il riuscito libro di Chuck Hogan "Il principe dei ladri" - costruiva un potente racconto noir, a metà fra le atmosfere letterarie d'un Edward Bunker e l'esattezza sociologica d'uno Scorsese. Le ambizioni, dipoi, s'alzano ulteriormente con "Argo" (2012), thriller ed ironia mescolati sapientemente dentro una messa in scena di classica sobrietà, capace di veicolare pure un interessante ed ironico discorso sulla macchina cinema.


Insomma, c'erano tutte le basi per attendersi da "La legge della notte" un risultato di prim'ordine, a cominciare dalla prediletta Boston quale teatro della vicenda e dall'ambientazione nell'America violenta del proibizionismo. Pure porre al centro degli accadimenti un delinquente dall'allure "good guy - bad guy", pareva un'idea stimolante e foriera di possibili interessanti sviluppi. Invece, la forza stilistica dimostrata in precedenti prove dal nostro qui risulta alquanto affievolita: tra contrabbandieri e "speakeasy", mitra e Borsalino, femme fatale e solitudine urbana, quello che ci scorre sotto gli occhi è un universo rigurgitante di stereotipi più che iconizzato. Forse intimorito dal confronto con le grandi pellicole del "genere", Affleck preferisce andare sul sicuro e non osare più che tanto. Intendiamoci, il film non manca di smalto e ritmo nella prima parte, impeccabile nella ricostruzione d'epoca, movimentata da inseguimenti e da colpi di scena. Dipoi, le giravolte della trama si fanno eccessive, le caratterizzazioni dei personaggi poco credibili (su tutti, primeggia in negativo Remo Girone, che sembra ancora essere fermo alle ridondanze de "La Piovra"), i finali si accumulano senza coinvolgere la platea che, alla lunga, rimane frastornata e poco convinta. Insomma, una sorta di battuta d'arresto per un cineasta che, comunque, certo non difetta d'ispirazione e siamo certi non mancherà, al più presto, di dimostrarlo nuovamente.

LA LEGGE DELLA NOTTE. REGIA: BEN AFFLECK. INTERPRETI: BEN AFFLECK, ZOE SALDANA, CHRIS SULLIVAN, ELLE FANNING, SCOTT EASTWOOD, SIENNA MILLER. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 128 MINUTI.






lunedì 13 febbraio 2017

Jackie

Jacqueline Kennedy aveva solo 34 anni quando suo marito venne eletto Presidente degli Usa. Elegante ed imperscrutabile, divenne immediatamente un'icona di stile in tutto il mondo: il suo gusto nella moda, negli arredi, nelle arti apparvero proverbiali e diventarono un modello da imitare. Poi, il 22 novembre 1963, durante un viaggio a Dallas tappa della campagna elettorale, John Fitzgerald Kennedy venne assassinato da uno - o più - sicari. Sotto choc ed affranta dal dolore, nel corso della settimana successiva la giovane vedova fu costretta ad affrontare momenti invero difficili: consolare i suoi due bimbi, lasciare la casa che aveva appena restaurato e pianificare le esequie di suo marito. Una cosa, tuttavia, ella ebbe subito chiarissima: quei giorni sarebbero stati decisivi per tratteggiare l'immagine e l'eredità storica del consorte ucciso, e di lei stessa nel futuro.

"Jacqueline Bouvier Kennedy Onassis fu una delle donne più riservate del mondo... La Jackie che pensiamo di conoscere è legata agli uomini che sposò. In abiti Oleg Cassini fu la moglie di JFK. O la sua vedova, colei che lanciò l'idea di Camelot come modo in cui lui e la Casa Bianca avrebbero dovuto essere ricordati". Così scrive William Kuhn, storico e biografo, in "Reading Jackie - Her Autobiography in Books", cercando di riassumere il mito e la figura d'una donna tra le più celebrate e discusse del Ventesimo secolo. La First Lady più narrata e fotografata di ogni epoca, tuttavia, non era mai stata rappresentata dal suo punto di vista. Sintetizzando la materia in un breve e ben definito periodo temporale, il cinesta cileno Pablo Larrain assieme al suo sceneggiatore Noah Oppenheim (premiato a Venezia per il suo lavoro), hanno chiamato Natalie Portman - capace d'una straordinaria performance - a cimentarsi, in maniera intensa e mimetica, col suo primo ruolo dentro un personaggio realmente esistito.

Per raccontarne la verità, Larrain ha dato vita ad un film storico-vestimentario, cercando l'identità reale dietro a quella fittizia, lungo i vestiboli e le camere della Casa Bianca, sotto la seta ed i tailleurs in crêpe, di fronte ai manichini inarticolati vestiti da Chanel. Un po' come capitava in "Neruda", il carattere di fiction di "Jackie" è fissato fino dalle prime sequenze, dove ella ricostruisce per un giornalista di "Life" tutte le sensazioni che l'hanno attraversata in quei giorni difficili e dolorosi della sua esistenza. La forma della narrazione è sempre assai attenta, dalle lente carrellate su una Jackie nel centro dell'inquadratura al contesto dello svolgersi degli eventi (si veda il momento dei funerali, messo in scena quasi fosse un capitolo di quella che sarebbe stata, dipoi, denominata "politica-spettacolo"). Solo in piccola parte intimidito dalla propria prima trasferta negli States e dai possibili rischi di una produzione internazionale, Larraín coniuga il potere dell'immaginazione di una donna con la propria propensione abituale per il paradosso, combina la ricostruzione storica con l'immagine di una rappresentazione privata delle stazioni d'un lutto. L'esito è forse meno incisivo e sorprendente di talune sue prove precedenti, da "Tony Manero" al già citato "Neruda", ma è comunque tale da superare di tanto gli standard hollywoodiani, nello stesso tempo adoprandone i canoni senza rinnegare gli stilemi del cinema d'autore.
                                                                                                       Francesco Troiano

JACKIE. REGIA: PABLO LARRAIN. INTERPRETI: NATALIE PORTMAN, BILLY CRUDUP, JOHN HURT, PETER SARSGAARD, GRETA GERWIG. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 99 MINUTI. 




mercoledì 8 febbraio 2017

150 milligrammi

Nell'ospedale universitario di Brest dove lavora, la pneumologa Iréne Frachon individua un collegamento diretto fra i decessi di alcuni suoi pazienti e l'assunzione del Mediator, in commercio da oltre un trentennio. Dopo aver sottoposto il proprio studio all' unità di ricerca interna della struttura, e verificato la fondatezza della propria tesi, decide di domandare all'Agenzia Francese del Farmaco di ritirarlo dal mercato. Ha inizio, così, una guerra fra il piccolo team bretone, il Ministero della Salute ed il colosso farmaceutico che lo commercializza... 

Ispirato a una vicenda realmente accaduta tra il 2009 e 2010, "La fille de Brest" - il titolo italiano è assai meno significativo - è una pellicola di quelle che una volta si facevano anche da noi (si pensi a "Bisturi la mafia bianca", diretto nel 1973 da Luigi Zampa) e, con ben altri mezzi, negli Usa (il superlativo "Insider", firmato nel 1999 da Michael Mann). Ora il tema della denuncia sembra avere assai meno presa; tanto più questa operina d'oltralpe si pone come un oggetto filmico interessante, volutamente fuori moda e pieno di generosa passione civile.

Tratto da un libro autobiografico delle medesima Frachon, il film di Emmanuelle Bercot - che, nella vita reale, voleva far giusto il medico - ricostruisce un caso che fece rumore nell'opinione pubblica francese. Il farmaco anoressizzante e antidiabetico, responsabile d'un enorme numero di decessi (tra i 500 ed i 2000, si stima) è, ovviamente, il pretesto per proporre nuovamente la sempre affascinante contrapposizione fra Davide e Golia: la lotta di chi combatte per il giusto, sia pur con mezzi limitatissimi, e l'arroganza smodata che contraddistingue i colossi del capitalismo. Più thriller che medical drama, "La fille de Brest" suscita indignazione nello spettatore ed empatia per le vittime: lo script, firmato dalla regista assieme a Séverine Bosschem, tiene la platea con il fiato sospeso e suscita delle salutari domande. Ma è il personaggio della Frachon - reso con bravura dall'attrice danese Sidse Babett Knudsen - ad essere il tramite perfetto per i fatti narrati: bizzarra, estrosa, esplosiva, la protagonista catalizza l'attenzione (sino al punto di soverchiare, a tratti, il lavoro d'investigazione paziente: un peccato veniale, comunque). In definitiva, un bell'esempio di cinema medio, che mai indulge al futile o al banale: merce ormai rara, di cui si avverte davvero la mancanza.
                                                                                                                               Francesco Troiano

150 MILLIGRAMMI. REGIA: EMMANUELLE BERCOT. INTERPRETI: SIDSE BABETT KNUDSEN, BENOIT MAGIMEL, CHARLOTTE LAEMEL. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 128 MINUTI.

domenica 29 gennaio 2017

Smetto quando voglio - Masterclass

"Una commedia acida parodistica e ultra citazionista, in cui il dramma sociale  viene ripreso esclusivamente come espediente comico... Ci siamo lasciati contaminare dal cinema americano contemporaneo, mettendo nel film tutto quanto ci piace; quello che Tarantino fa con i film italiani, abbiamo provato a farlo con prodotti americani". Così parlò Sidney Sibilia tre anni fa quando, al proprio debutto dietro la cinepresa, sciorinava una pellicola atipica per queste latitudini quale "Smetto quando voglio". La trama, si ricorderà, verteva su un ricercatore di chimica, Pietro, che, nel tentativo di sbarcare il lunario, metteva a punto una smart drug, basata su una molecola non perseguibile dalla legge. A commercializzarla, lo aiutavano sei amici, ciascuno a suo modo in difficoltà. La vita di tutti mutava ma sorgevano anche delle complicazioni: a iniziar dal fatto che la fidanzata del protagonista, Giulia, doveva venire tenuta all'oscuro di tutto, essendo ella assistente sociale impegnata nelle tossicodipendenze...

Dato pure il gran successo di pubblico, un seguito era inevitabile. Così, ecco che la banda dei ricercatori-spacciatori è di nuovo in campo: l'associazione a delinquere "con il più alto tasso di cultura di sempre", per ottenere la libera uscita ed una fedina penale pulita, deve aiutare le forze dell'ordine - tramite la poliziotta Paola Coletti - a fermar il dilagare delle smart drug. Pietro, però, non può rivelare alcunché del suo nuovo incarico alla compagna Giulia, incinta del loro primo figlio, ed è costretto ad inventare con lei bugie sempre più colorite. Sidney Sibilia si conferma un alieno nel panorama del cinema indigeno d'oggi, già dall'idea di costruire sul suo fortunato esordio una trilogia che - guidata, certo, da un'esigenza squisitamente commerciale - intende tuttavia mantenere una interna coerenza artistica.

Reduci dalla triste e recente abbuffata di cinepanettoni (così li aveva chiamati Lietta Tornabuoni), è un piacere lo snodarsi di una storia originale, non volgare e non banale, che guarda con un occhio alla commedia nostrana (in testa, è ovvio, "I soliti ignoti"), con l'altro all'action comedy statunitense (la saga degli "Ocean's Eleven", chiaro). Trait d'union fra i due modelli è la caratterizzazione marcata dei personaggi, un po' come nelle opere di Guy Ritchie o di Danny Boyle: di costoro, viene recuperato pure il tono scanzonato, con sottolineature farsesche e ritmo narrativo incalzante. Tra dialoghi e gag scoppiettanti (per far qualche esempio, quella delle mani alzate, il cartoon lisergico in rotoscoping e l'assalto al treno), la vicenda si snoda senza pause: e ci lascia, con un tanto di malizia, in sospeso, rinviando il districarsi dei nodi al pannello finale - uscirà fra un mese - del trittico.
                                                                                   Francesco Troiano

SMETTO QUANDO VOGLIO - MASTERCLASS. REGIA: SIDNEY SIBILIA. INTERPRETI: EDOARDO LEO, VALERIO APREA, PAOLO CALABRESI, LIBERO DE RIENZO, GIAMPAOLO MORELLI, VALERIA SOLARINO. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 113 MINUTI.   



 

lunedì 23 gennaio 2017

Split

Kevin, afflitto da dei disturbi psichici allarmanti, è seguito da una competente e agguerrita terapeuta che, tuttavia, non è riuscita a comprendere fino in fondo la pericolosità del soggetto in cura: ha individuato in lui ben 23 personalità che affiorano di volta in volta nella mente e nel corpo; ma non immagina che ve ne sia una ventiquattresima, quella tramite la quale le furie dell'Es s'estrinsecano prive di freni, con conseguenze non prevedibili. Casey, invece, è una fanciulla chiusa ed introversa, evitata perciò dalle sue compagne di scuola più popolari: insieme a due di loro, Claire e Marcia, viene rapita giusto da Kevin, che chiude tutte e tre in uno scantinato. In attesa di capire cosa sarà di loro, scopriranno i tanti individui che coabitano nella psiche del loro sequestratore: un bimbo di 9 anni, una donna ed altri ancora, assai più inquietanti...

Curioso percorso, quello del cineasta di origine indiana - è nato a Madras, nel 1970 - M. Night Shyamalan: balzato alla ribalta nel 1999 con "Il sesto senso", thriller dall'impianto soprannaturale apprezzato dalla critica e dal pubblico in tutto il mondo, ha poi faticato a ottenere riconoscimenti ed esiti di box-office paragonabili a quelli del suo film-rivelazione. Costruiti un poco tutti alla stessa maniera (un intrigo all'apparenza inspiegabile che, nello scioglimento, prevede un colpo di scena), i lavori del nostro hanno per lo più sofferto "di esibizione autoreferenziale e compiaciuta, priva d'un altrettanto efficace meccanismo di narrazione filmica" (P.Marocco). Fa eccezione, ad avviso di chi scrive, l'ottimo "The Village" (2004), arricchito da una sorpresa conclusiva "che trasforma una fiaba gotica in una melanconica utopia sulle paure contemporanee" (P.Mereghetti).

Costretto dall'industria, dopo una certa quantità di insuccessi, a confrontarsi con dei budget assai limitati, Shyamalan è apparso di nuovo in forma grazie a "The Visit" (2015): dove l'espediente del found footage viene rovesciato in un falso documentario montato dai ragazzini protagonisti che - novelli Hansel e Gretel - vivranno una spaventevole esperienza a partire da un clima di serene apparenze (una visita, appunto, ai nonni materni mai conosciuti prima). Dato il buon risultato, in "Split" ora si cimenta con un tema - il disturbo dissociativo dell'identità, patologia dall'indiscusso potenziale cinematografico: si va dallo "Psyco" di Hitchcock a "Vestito per uccidere" di De Palma, sino al meno noto "Identità" di James Mangold - che, proprio per l'esistenza di cotali precedenti, era già sulla carta azzardoso. Come se la cava? Nella prima parte, ci sembra, molto bene: in particolare, i cinque minuti iniziali son da antologia, una lucente dimostrazione di come la paura scaturisca dall'assenza. Ma l'epilogo obbliga a una repentina mutazione di registro e di percezione generale del film: vi è una virata verso il dato irrazionale tipica dell'autore, che, nella fattispecie, lascia perplessi. Come lavoro sui generi cinematografici, tuttavia, "Split" incuriosisce e a tratti intriga: il limite maggiore sta nella ritrosia del regista ad accettare le logiche del B-movie, mettendosi a volte in cerca di una smarrita autorialità (i lunghi dialoghi tra paziente e psichiatra, ad esempio). La virtuosistica prova di James McAvoy è l'atout d'una pellicola che - malgrado gli squilibri evidenziati - non dispiacerà agli amanti del brivido.
                                                                                   Francesco Troiano

APLIT. REGIA: M.NIGHT SHYAMALAN. INTERPRETI: JAMES McAVOY, ANYA TAYLOR-JOY, HALEY LU RICHARDSON, JESSICA SULA. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 115 MINUTI.



giovedì 19 gennaio 2017

The Arrival

Una dozzina di misteriose astronavi appaiono e si posizionano, nel medesimo momento, in diversi punti della Terra: in apparenza, sono dotate d'un potere immenso, in procinto di esplodere. Louise Banks, linguista di fama mondiale (e reduce da un devastante dramma personale), vien reclutata dall'esercito degli Stati Uniti insieme al fisico teorico Ian Donnelly, come lei pronto a prendersi un grande azzardo. La missione loro affidata è quella di penetrare il monumentale monolite - per l'esattezza, quello atterrato nel Montana - e dipoi interrogare gli extraterrestri sulle loro intenzioni. Ma l'incarico si rivela ben presto complicato: c'è da individuare un alfabeto comune per costruire un dialogo con gli alieni, una forma di comunicazione scritta pel tramite di simboli circolari. Intanto, il tempo scorre ed il mondo, fuori, freme: ad un certo punto, la Cina rompe gli indugi ed è la prima potenza mondiale a dichiarar guerra all'ipotetico nemico...


Umanoidi, a volte verdognoli, con crani smisurati ed occhi sporgenti; mostri spaventevoli dotati di pericolose fauci; robot fuori misura. Così l'iconografia cinematografica ha, in genere, rappresentato le creature provenienti da altri universi: non sempre in forme minacciose, intendiamoci (basti per tutti "E.T."), ma di preferenza sì. "Arrival" comunque appartiene al filone della fantascienza seriosa ed impegnata, dove il racconto coincide con un percorso iniziatico che conduce i protagonisti ad un maggiore grado di consapevolezza: i primi titoli che vengono alla mente sono, ovviamente, "Incontri ravvicinati del terzo tipo" ed il più recente "Interstellar" (anche se, ad un certo punto, le reazioni ostili di talune nazioni fanno pensare alle atmosfere del vecchio "Ultimatum alla terra": il lupo perde il pelo, ma non il vizio).



Tratto da un racconto breve, e lontano dalle logiche fracassone delle pellicole alla Emmerich, il film del canadese Denis Villeneuve - bravissimo ad attraversar i generi, da "Prisoners" a "Sicario" ad oggi, sempre con la stessa sicurezza ed originalità - prende strade collaterali, si muove fra i registri del metaforico e del metafisico, semina dubbi in luogo di mulinare certezze. Pur senza rivoluzionare l'immaginario della science-fiction, l'autore de "La donna che canta" evoca un concetto e gli dona una forma. Gli eptapodi in visita sul nostro pianeta recano un dono, ma ci vorrà la sensibilità straordinaria di una donna piagata dal lutto e di uno scienziato dal fondo umanista, per trovare la chiave dell'enigma. Lo scioglimento si muove in territori pericolosi, tra sentimento e filosofia, quelli da un poco preferiti da Terrence Malick: però gli incidenti in cui quest'ultimo è, di recente, incappato qui vengono evitati con grazia, alla commozione viene dato diritto di cittadinanza ma senza obbligo di esazione della lacrima. Il merito del bel risultato finale va in buona parte a una magnetica Amy Adams, negli occhi della quale passa una gamma di sensazioni infinita: comunicate senza sforzo alcuno ai visitatori - e, in egual misura, agli spettatori.

                                                                                   Francesco Troiano


THE ARRIVAL. REGIA: DENIS VILLENEUVE. INTERPRETI:AMY ADAMS, JEREMY RENNER. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 120 MINUTI.



mercoledì 11 gennaio 2017

The Founder

1954. Marilyn Monroe ha appena sposato Joe DiMaggio; Elvis Presley registra "That's All Right" e "Blue Moon of Kentucky" per la Sun Records; il produttore Walt Disney ha pressoché completato la costruzione del suo parco divertimenti ad Anaheim, in California. Mentre gli Stati Uniti vivono il boom del dopoguerra, il 52enne Ray Kroc percorre in lungo ed in largo il paese, per piazzare dei frullatori a luoghi di ristorazione dal modesto successo. Scovato un chiosco di hamburger a San Bernardino, nella California del Sud, comprende di trovarsi di fronte ad un sistema innovativo di preparazione, cottura e vendita al minuto d'uno tra gli alimenti più richiesti. L'idea l'hanno avuta due fratelli, Richard e Maurice McDonald: Kroc, invece, si dà immediatamente da fare per mettere su un franchising. Le potenzialità si confermano enormi, laddove la coppia di inventori ha, invece, ambizioni assai meno grandiose...

John Lee Hancock, già autore di "Saving Mr.Banks", sull'incontro tra Walt Disney e P.L.Travers, era probabilmente il regista più adatto ad affrontare questo "The Founder"; racconto esemplare di come il capitalismo renda legali il furto delle idee, l'appropriazione indebita delle intuizioni, sino all'esproprio di una possibile enorme ricchezza. Di documentari e pellicole sulla fabbrica degli hamburger ne avevamo veduti già diversi, taluni anche di qualche risonanza, ma a nessuno era venuto in mente di narrare la genesi di un simile impero. A mezza strada fra "Il petroliere" di Paul Thomas Anderson e "The Social Network" di David Fincher, "The Finder" - scritto da Robert Siegel - era sin dal principio tra i titoli più attesi dell'annata: e si può, davvero, dire che le aspettative non risultano deluse.

Lontano dal biopic nel senso tradizionale del termine, il film dipinge il ritratto di un gigante ch'è pure un furfante, di un genio della comunicazione allo stesso tempo vampiro di meriti, di un imprenditore che fa della voracità il proprio marchio di fabbrica - ben più della M ad arco, che contraddistinguerà il simbolo McDonald in tutto il mondo. Incarnazione tagliente di quel self-made man che il mito americano ben si guarda dall'esplicitare nella sua realtà, il Ray Kroc impersonato da Michael Keaton - un'interpretazione mirabile, che dovrebbe fruttargli il primo Oscar da protagonista, se vi sarà giustizia - è un colosso dai piedi d'argilla, sostenuto da una forza di volontà inossidabile. Più utile di tanti saggi a spiegare come il sistema sostenga il primato della forza e dell'astuzia, riuscendo ad aggirare ed asservire finanche le leggi a codesto scopo, "The Founder" è tra gli esiti più spiazzanti e riusciti di una stagione che, fino ad ora, non ha fornito molti picchi.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

THE FOUNDER. REGIA: JOHN LEE HANCOCK. INTERPRETI: MICHAEL KEATON, LINDA CARDELLINI, PATRICK WILSON, LAURA DERN. DISTRIBUZIONE: VIDEA.
DURATA: 115 MINUTI.