domenica 29 gennaio 2017

Smetto quando voglio - Masterclass

"Una commedia acida parodistica e ultra citazionista, in cui il dramma sociale  viene ripreso esclusivamente come espediente comico... Ci siamo lasciati contaminare dal cinema americano contemporaneo, mettendo nel film tutto quanto ci piace; quello che Tarantino fa con i film italiani, abbiamo provato a farlo con prodotti americani". Così parlò Sidney Sibilia tre anni fa quando, al proprio debutto dietro la cinepresa, sciorinava una pellicola atipica per queste latitudini quale "Smetto quando voglio". La trama, si ricorderà, verteva su un ricercatore di chimica, Pietro, che, nel tentativo di sbarcare il lunario, metteva a punto una smart drug, basata su una molecola non perseguibile dalla legge. A commercializzarla, lo aiutavano sei amici, ciascuno a suo modo in difficoltà. La vita di tutti mutava ma sorgevano anche delle complicazioni: a iniziar dal fatto che la fidanzata del protagonista, Giulia, doveva venire tenuta all'oscuro di tutto, essendo ella assistente sociale impegnata nelle tossicodipendenze...

Dato pure il gran successo di pubblico, un seguito era inevitabile. Così, ecco che la banda dei ricercatori-spacciatori è di nuovo in campo: l'associazione a delinquere "con il più alto tasso di cultura di sempre", per ottenere la libera uscita ed una fedina penale pulita, deve aiutare le forze dell'ordine - tramite la poliziotta Paola Coletti - a fermar il dilagare delle smart drug. Pietro, però, non può rivelare alcunché del suo nuovo incarico alla compagna Giulia, incinta del loro primo figlio, ed è costretto ad inventare con lei bugie sempre più colorite. Sidney Sibilia si conferma un alieno nel panorama del cinema indigeno d'oggi, già dall'idea di costruire sul suo fortunato esordio una trilogia che - guidata, certo, da un'esigenza squisitamente commerciale - intende tuttavia mantenere una interna coerenza artistica.

Reduci dalla triste e recente abbuffata di cinepanettoni (così li aveva chiamati Lietta Tornabuoni), è un piacere lo snodarsi di una storia originale, non volgare e non banale, che guarda con un occhio alla commedia nostrana (in testa, è ovvio, "I soliti ignoti"), con l'altro all'action comedy statunitense (la saga degli "Ocean's Eleven", chiaro). Trait d'union fra i due modelli è la caratterizzazione marcata dei personaggi, un po' come nelle opere di Guy Ritchie o di Danny Boyle: di costoro, viene recuperato pure il tono scanzonato, con sottolineature farsesche e ritmo narrativo incalzante. Tra dialoghi e gag scoppiettanti (per far qualche esempio, quella delle mani alzate, il cartoon lisergico in rotoscoping e l'assalto al treno), la vicenda si snoda senza pause: e ci lascia, con un tanto di malizia, in sospeso, rinviando il districarsi dei nodi al pannello finale - uscirà fra un mese - del trittico.
                                                                                   Francesco Troiano

SMETTO QUANDO VOGLIO - MASTERCLASS. REGIA: SIDNEY SIBILIA. INTERPRETI: EDOARDO LEO, VALERIO APREA, PAOLO CALABRESI, LIBERO DE RIENZO, GIAMPAOLO MORELLI, VALERIA SOLARINO. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 113 MINUTI.   



 

lunedì 23 gennaio 2017

Split

Kevin, afflitto da dei disturbi psichici allarmanti, è seguito da una competente e agguerrita terapeuta che, tuttavia, non è riuscita a comprendere fino in fondo la pericolosità del soggetto in cura: ha individuato in lui ben 23 personalità che affiorano di volta in volta nella mente e nel corpo; ma non immagina che ve ne sia una ventiquattresima, quella tramite la quale le furie dell'Es s'estrinsecano prive di freni, con conseguenze non prevedibili. Casey, invece, è una fanciulla chiusa ed introversa, evitata perciò dalle sue compagne di scuola più popolari: insieme a due di loro, Claire e Marcia, viene rapita giusto da Kevin, che chiude tutte e tre in uno scantinato. In attesa di capire cosa sarà di loro, scopriranno i tanti individui che coabitano nella psiche del loro sequestratore: un bimbo di 9 anni, una donna ed altri ancora, assai più inquietanti...

Curioso percorso, quello del cineasta di origine indiana - è nato a Madras, nel 1970 - M. Night Shyamalan: balzato alla ribalta nel 1999 con "Il sesto senso", thriller dall'impianto soprannaturale apprezzato dalla critica e dal pubblico in tutto il mondo, ha poi faticato a ottenere riconoscimenti ed esiti di box-office paragonabili a quelli del suo film-rivelazione. Costruiti un poco tutti alla stessa maniera (un intrigo all'apparenza inspiegabile che, nello scioglimento, prevede un colpo di scena), i lavori del nostro hanno per lo più sofferto "di esibizione autoreferenziale e compiaciuta, priva d'un altrettanto efficace meccanismo di narrazione filmica" (P.Marocco). Fa eccezione, ad avviso di chi scrive, l'ottimo "The Village" (2004), arricchito da una sorpresa conclusiva "che trasforma una fiaba gotica in una melanconica utopia sulle paure contemporanee" (P.Mereghetti).

Costretto dall'industria, dopo una certa quantità di insuccessi, a confrontarsi con dei budget assai limitati, Shyamalan è apparso di nuovo in forma grazie a "The Visit" (2015): dove l'espediente del found footage viene rovesciato in un falso documentario montato dai ragazzini protagonisti che - novelli Hansel e Gretel - vivranno una spaventevole esperienza a partire da un clima di serene apparenze (una visita, appunto, ai nonni materni mai conosciuti prima). Dato il buon risultato, in "Split" ora si cimenta con un tema - il disturbo dissociativo dell'identità, patologia dall'indiscusso potenziale cinematografico: si va dallo "Psyco" di Hitchcock a "Vestito per uccidere" di De Palma, sino al meno noto "Identità" di James Mangold - che, proprio per l'esistenza di cotali precedenti, era già sulla carta azzardoso. Come se la cava? Nella prima parte, ci sembra, molto bene: in particolare, i cinque minuti iniziali son da antologia, una lucente dimostrazione di come la paura scaturisca dall'assenza. Ma l'epilogo obbliga a una repentina mutazione di registro e di percezione generale del film: vi è una virata verso il dato irrazionale tipica dell'autore, che, nella fattispecie, lascia perplessi. Come lavoro sui generi cinematografici, tuttavia, "Split" incuriosisce e a tratti intriga: il limite maggiore sta nella ritrosia del regista ad accettare le logiche del B-movie, mettendosi a volte in cerca di una smarrita autorialità (i lunghi dialoghi tra paziente e psichiatra, ad esempio). La virtuosistica prova di James McAvoy è l'atout d'una pellicola che - malgrado gli squilibri evidenziati - non dispiacerà agli amanti del brivido.
                                                                                   Francesco Troiano

APLIT. REGIA: M.NIGHT SHYAMALAN. INTERPRETI: JAMES McAVOY, ANYA TAYLOR-JOY, HALEY LU RICHARDSON, JESSICA SULA. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 115 MINUTI.



giovedì 19 gennaio 2017

The Arrival

Una dozzina di misteriose astronavi appaiono e si posizionano, nel medesimo momento, in diversi punti della Terra: in apparenza, sono dotate d'un potere immenso, in procinto di esplodere. Louise Banks, linguista di fama mondiale (e reduce da un devastante dramma personale), vien reclutata dall'esercito degli Stati Uniti insieme al fisico teorico Ian Donnelly, come lei pronto a prendersi un grande azzardo. La missione loro affidata è quella di penetrare il monumentale monolite - per l'esattezza, quello atterrato nel Montana - e dipoi interrogare gli extraterrestri sulle loro intenzioni. Ma l'incarico si rivela ben presto complicato: c'è da individuare un alfabeto comune per costruire un dialogo con gli alieni, una forma di comunicazione scritta pel tramite di simboli circolari. Intanto, il tempo scorre ed il mondo, fuori, freme: ad un certo punto, la Cina rompe gli indugi ed è la prima potenza mondiale a dichiarar guerra all'ipotetico nemico...


Umanoidi, a volte verdognoli, con crani smisurati ed occhi sporgenti; mostri spaventevoli dotati di pericolose fauci; robot fuori misura. Così l'iconografia cinematografica ha, in genere, rappresentato le creature provenienti da altri universi: non sempre in forme minacciose, intendiamoci (basti per tutti "E.T."), ma di preferenza sì. "Arrival" comunque appartiene al filone della fantascienza seriosa ed impegnata, dove il racconto coincide con un percorso iniziatico che conduce i protagonisti ad un maggiore grado di consapevolezza: i primi titoli che vengono alla mente sono, ovviamente, "Incontri ravvicinati del terzo tipo" ed il più recente "Interstellar" (anche se, ad un certo punto, le reazioni ostili di talune nazioni fanno pensare alle atmosfere del vecchio "Ultimatum alla terra": il lupo perde il pelo, ma non il vizio).



Tratto da un racconto breve, e lontano dalle logiche fracassone delle pellicole alla Emmerich, il film del canadese Denis Villeneuve - bravissimo ad attraversar i generi, da "Prisoners" a "Sicario" ad oggi, sempre con la stessa sicurezza ed originalità - prende strade collaterali, si muove fra i registri del metaforico e del metafisico, semina dubbi in luogo di mulinare certezze. Pur senza rivoluzionare l'immaginario della science-fiction, l'autore de "La donna che canta" evoca un concetto e gli dona una forma. Gli eptapodi in visita sul nostro pianeta recano un dono, ma ci vorrà la sensibilità straordinaria di una donna piagata dal lutto e di uno scienziato dal fondo umanista, per trovare la chiave dell'enigma. Lo scioglimento si muove in territori pericolosi, tra sentimento e filosofia, quelli da un poco preferiti da Terrence Malick: però gli incidenti in cui quest'ultimo è, di recente, incappato qui vengono evitati con grazia, alla commozione viene dato diritto di cittadinanza ma senza obbligo di esazione della lacrima. Il merito del bel risultato finale va in buona parte a una magnetica Amy Adams, negli occhi della quale passa una gamma di sensazioni infinita: comunicate senza sforzo alcuno ai visitatori - e, in egual misura, agli spettatori.

                                                                                   Francesco Troiano


THE ARRIVAL. REGIA: DENIS VILLENEUVE. INTERPRETI:AMY ADAMS, JEREMY RENNER. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 120 MINUTI.



mercoledì 11 gennaio 2017

The Founder

1954. Marilyn Monroe ha appena sposato Joe DiMaggio; Elvis Presley registra "That's All Right" e "Blue Moon of Kentucky" per la Sun Records; il produttore Walt Disney ha pressoché completato la costruzione del suo parco divertimenti ad Anaheim, in California. Mentre gli Stati Uniti vivono il boom del dopoguerra, il 52enne Ray Kroc percorre in lungo ed in largo il paese, per piazzare dei frullatori a luoghi di ristorazione dal modesto successo. Scovato un chiosco di hamburger a San Bernardino, nella California del Sud, comprende di trovarsi di fronte ad un sistema innovativo di preparazione, cottura e vendita al minuto d'uno tra gli alimenti più richiesti. L'idea l'hanno avuta due fratelli, Richard e Maurice McDonald: Kroc, invece, si dà immediatamente da fare per mettere su un franchising. Le potenzialità si confermano enormi, laddove la coppia di inventori ha, invece, ambizioni assai meno grandiose...

John Lee Hancock, già autore di "Saving Mr.Banks", sull'incontro tra Walt Disney e P.L.Travers, era probabilmente il regista più adatto ad affrontare questo "The Founder"; racconto esemplare di come il capitalismo renda legali il furto delle idee, l'appropriazione indebita delle intuizioni, sino all'esproprio di una possibile enorme ricchezza. Di documentari e pellicole sulla fabbrica degli hamburger ne avevamo veduti già diversi, taluni anche di qualche risonanza, ma a nessuno era venuto in mente di narrare la genesi di un simile impero. A mezza strada fra "Il petroliere" di Paul Thomas Anderson e "The Social Network" di David Fincher, "The Finder" - scritto da Robert Siegel - era sin dal principio tra i titoli più attesi dell'annata: e si può, davvero, dire che le aspettative non risultano deluse.

Lontano dal biopic nel senso tradizionale del termine, il film dipinge il ritratto di un gigante ch'è pure un furfante, di un genio della comunicazione allo stesso tempo vampiro di meriti, di un imprenditore che fa della voracità il proprio marchio di fabbrica - ben più della M ad arco, che contraddistinguerà il simbolo McDonald in tutto il mondo. Incarnazione tagliente di quel self-made man che il mito americano ben si guarda dall'esplicitare nella sua realtà, il Ray Kroc impersonato da Michael Keaton - un'interpretazione mirabile, che dovrebbe fruttargli il primo Oscar da protagonista, se vi sarà giustizia - è un colosso dai piedi d'argilla, sostenuto da una forza di volontà inossidabile. Più utile di tanti saggi a spiegare come il sistema sostenga il primato della forza e dell'astuzia, riuscendo ad aggirare ed asservire finanche le leggi a codesto scopo, "The Founder" è tra gli esiti più spiazzanti e riusciti di una stagione che, fino ad ora, non ha fornito molti picchi.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

THE FOUNDER. REGIA: JOHN LEE HANCOCK. INTERPRETI: MICHAEL KEATON, LINDA CARDELLINI, PATRICK WILSON, LAURA DERN. DISTRIBUZIONE: VIDEA.
DURATA: 115 MINUTI.